domenica 28 ottobre 2018

Ventimiglia (IM) e zona: il caso Foscolo

J.T Wilmore, Ventimiglia - Particolare con il ponte seicentesco (articolo di Erino Viola = "Ventimiglia nel Seicento" dalla Rivista Aprosiana 2007)
La lettera da Ventimiglia (IM) che Ugo Foscolo attribuì a Jacopo Ortis, infelice protagonista del suo omonimo romanzo, non è fatto solo letterario ma nasce da un’esperienza autobiografica.
La romanzesca lettera, del 19-20 febbraio 1799 venne in effetti ideata sulla base di due viaggi foscoliani per le contrade liguri.
Uno avvenne nel giugno 1800 (Genova-Pietra Ligure-Nizza Monferrato-Alessandria), mentre quello che gli fece conoscere Ventimiglia si era svolto nel dicembre 1799 (Genova-Ventimiglia-Nizza).

Quest'ultimo fu causato da un grave evento politico, essendo GENOVA provvisoriamente caduta nelle mani delle forze antirivoluzionarie ostili alla Francia: ne derivò una fuga di tutti i filofrancesi e filonapoleonici alla difesa di Genova tra cui, assieme allo sfinito fratello Giovanni Dioniso, anche UGO FOSCOLO, che pure aveva avuto “tempo” di intrecciare una relazione amorosa e poetica con la nobile genovese LUIGIA PALLAVICINI.
Ed a proposito delle “relazioni foscolane” con la LIGURIA giova qui rammentare che su di esse, attraverso il controverso rapporto Vincenzo Monti – Ugo Foscolo, un influsso significativo anche culturale esercitò GIUSEPPE BIAMONTI DI SAN BIAGIO DELLA CIMA (maestro di greco classico di Vincenzo Monti e per tal via entrato tra le conoscenze foscoliane), nei cui riguardi proprio il Foscolo sarebbe diventato debitore di una non banale intuizione protoromantica per il suo celebre carme Dei Sepolcri.

Gli eventi del 1799 influenzarono quindi decisamente la stesura delle “Ultime Lettere di Jacopo Ortis", che essendo romanzo del 1802 ,risultò altresì contaminato dall’esperienza del soggiorno foscoliano del 1800 a Pietra Ligure.

Rispetto ai tempi di Angelico Aprosio, alcune cose non eran comunque mutate: in primis l’assenza di una strada litoranea dignitosa ed in secondo luogo il fatto che il misero percorso che conduceva da Bordighera a Ventimiglia era spesso interrotto da alluvioni e tracimazioni, conseguenza di quelle scarse previdenze epocali nei riguardi di arginature, ripascimento delle spiagge ed igiene pubblica, su cui Aprosio, descrivendo Ventimiglia nel suo repertorio biblioteconomico del 1673, si era già soffermato.

Nella lettera il Foscolo descrive un ambiente invernale: le piogge di fine ’99 e dei primi mesi del nuovo secolo, con fenomeni alluvionali, sono fotografati nel quadro ambientale di Ventimiglia e terre circonvicine. Dall’altura delle Maure egli contemplò le acque in piena del Roia, quindi raggiunse il ponte rinascimentale e da una rotonda all’inizio di questo, che tuttora esiste a fianco sud dell’attuale ponte stradale e pedonale, egli contemplò, come oggi stesso risulta possibile, “i due argini di altissime rupi e burroni cavernosi” che rimandano alle “Gole di Saorgio”.
"Rara veduta di Ventimiglia in cui non compare l'edificio dell'ex seminario" (articolo di Erino Viola = "Ventimiglia nel Seicento" dalla Rivista Aprosiana 2007)
Dall’altura delle Maure egli contemplò le acque in piena del Roia, quindi raggiunse il ponte rinascimentale e da una rotonda all’inizio di questo, che tuttora esiste a fianco sud dell’attuale ponte stradale e pedonale, egli contemplò, come oggi stesso risulta possibile, “i due argini di altissime rupi e burroni cavernosi” che rimandano alle “Gole di Saorgio”. Ugo Foscolo a Siestro ed alle Maure era giunto per sentieri di altura, perché al suo Ortis fa parlare di un viaggio verso Ventimiglia “fra aspre montagne”. Dice anche che su quei monti sono “MOLTE CROCI CHE SEGNANO IL SITO DEI VIANDANTI ASSASSINATI” (ma giunge altresì sintomatico che , con poetica intuizione, abbia parlato istintivamente di viandanti e non di soldati o masnadieri, sentendo o da altri intuendo che quella era soprattutto una via pacifica, a parte le recenti drammatiche situazioni). Tale preromantica espressione non corrisponde al vero sia perché non era consuetudine epocale di SEPPELLIRE (PROCEDERE ALLE INUMAZIONI) in tal modo, sia per il fatto che nessun notaio ha mai registrato nulla di simile neppure in circostanze eccezionali. Per inciso occorre ricordare come il tema protoromantico dei cimiteri, che portò alla - dal Foscolo contestata nel Dei Sepolcri - seppur sulla base di istanze sentimentali, normativa di Saint Cloud era la dilatazione letteraria di un problema reale, connesso ad una crescente necessità sia di igiene pubblica quanto alla lotta contro perduranti forme di pratiche superstiziose alimentate sia da mancata custodia dei cimiteri che dal lugubre formalismo delle inumazioni (terrori indubbiamente acclarati da un evento epocale di presunti ritornanti connessi ad una supposta epidemia di vampirismo) ed ancora all’esigenza di porre un limite, per carenza di rilevazioni diagnostiche, al non raro seppellimento di persone ancora vive, le così dette vittime, per varie casualità e patologie, delle MORTI APPARENTI.

Cippo confinario del 1700 tra Seborga (IM) e Sanremo - Foto: Franco Fogliarini di Seborga

Quelle che vide erano le CROCI disposte verso gli ultimi anni del ‘600 onde dirimere le CONTROVERSIE DI CONFINE tra il Dominio di Genova e Seborga e tra Ventimiglia ed i borghi rurali o marinari di Camporosso, Vallecrosia, Bordighera, San Biagio della Cima, Sasso, Soldano, Vallebona, Borghetto San Nicolò: siffatti cippi a pseudotumulo correvano a fianco delle vie di altura che - data la loro importanza - erano state contestate nel contenzioso.  
  
Inteso che nel dicembre 1799 il Nervia in piena aveva tracimato e che il ponte non esisteva più o più non serviva, il Foscolo, giunto a Bordighera, deve aver intrapreso la direttrice interna di sublitorale per accedere da tal paese alla valle del Crosa e quindi giungere da Dolceacqua alla deviazione dal Convento della Mota.
 
Per mezzo di questo percorso egli era quasi certamente giunto in Dolceacqua dalla valle del Crosa, seguendo la deviazione già descritta in una pubblica relazione genovese del 1629.
Poi, superato facilmente per il robusto ponte il Nervia, era passato dal Borgonuovo di Dolceacqua al Convento della Muta donde, inerpicandosi per una mulattiera dovette immettersi sulla strada d’altura sin al punto limite del Convento di Sant'Agostino.
Precisamente, prima di giungere all’area di tale complesso ecclesiale, il poeta di Zante dovette iniziare a discendere dall’altura donde aveva contemplata con tanta efficacia protoromantica sia la natura che Ventimiglia.
Finalmente, avvicinandosi per tappe mai agevoli raggiunse “Li prati delli Frati” da dove facilmente potè accedere al Convento di Sant' Agostino di Ventimiglia (IM), il cui fronte guardava la “strada romana”.
"Veduta ottocentesca della chiesa di S. Antonio Abate e di via Garibaldi di Clemente Rovere, 1830" (articolo di Erino Viola con la collaborazione di Andrea Folli e Gisella Merello = "La Strada Nuova e gli altri edifici pubblici cittadini" dalla Rivista Aprosiana 2007)

Da lì gli giunse oltremodo semplice raggiungere il corso del fiume Roia e finalmente il complesso demico principale della città di Ventimiglia donde non dovette certo creargli problemi una prosecuzione del viaggio alla volta del sicuro territorio di Francia.

da Cultura-Barocca

lunedì 22 ottobre 2018

Un canonico alla scoperta di Capo Don
















da Bartolomeo Durante - Mario De Apollonia, Albintimilium antico municipio romano, Gribaudo [ora Gribaudo-Paravia], Cavallermaggiore, 1988

in Cultura-Barocca

martedì 16 ottobre 2018

Civezza (IM) e dintorni in "Viaggio da Genova a Nizza scritto da un ligure nel 1865"














Viaggio da Genova a Nizza, ossia Descrizione con notizie storiche, di statistica ed estetica e d’arti e di lettere / scritta da un ligure nel 1865 Firenze : tip. Calasanziana, 1871, 2 v. ; 16 cm ., reperibile in AV0007 NAPAV Biblioteca Provinciale Giulio e Scipione Capone – Avellino – AV – FI0098 CFICF Biblioteca nazionale centrale – Firenze – FI – GE0038 LIG01 Biblioteca Universitaria – Genova – GE – IM0001 LIG44 Biblioteca Clarence Bicknell dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri – Bordighera – IM – IM0019 LIG02 Biblioteca Civica Leonardo Lagorio – Imperia – IM (di questa opera ne è stata fatta una Ristampa anastatica Forni, stampa 1972: Descrizione fisica 2 v. ; 17 cm – · Ripr. dell’ed.: Firenze : Tipografia Calasanziana, 1871 – · Ed. di 400 esempl. numerati).

L’anonimo ligure (di cui l’esemplare qui digitalizzato proviene da Biblioteca Privata) è il Padre Luigi Ricca minore osservante di Civezza (IM).
Il Ricca (1836-1881) fu botanico e naturalista, membro della Società Ligure di Storia Patria. Gli si debbono, fra gli altri lavori, il qui digitalizzato Viaggio da Genova a Nizza e un Catalogo delle piante vascolari spontanee della zona olearia nelle due valli di Diano Marina e di Cervo. Importante poi il suo lavoro Compendio delle più importanti vitali manifestazioni delle piante coll’aggiunta delle Geografiche e Geologiche loro relazioni. Saggio di studi botanici Tip. Lit. di Gio. Ghilini, Oneglia, 1866. In-8°, pp. 248, (4)

da Cultura-Barocca

lunedì 15 ottobre 2018

Maule o Maure tra Ventimiglia (IM) e Camporosso

Ai primi del '200 la vita comunale di Ventimiglia (IM) cessa, nonostante il valore degli abitanti e prescindendo dalla resistenza di un gruppo di coraggiosi RIBELLI INTEMELI asserragliati nelle terre di Bordighera, presso i siti del di S. Ampelio.
Il comandante genovese LOTTARINGO DI MARTINENGO, deciso a soffocare ogni resistenza e frenare le incursioni della piccola ma agile flotta intemelia (interrando il Porto canale del Roia affondandovi copani ed altre imbarcazioni piene di detriti) fortificare l'ALTURA delle Maule per condurre da essa un vantaggioso assedio contro la città (1221) che bombardò di pietrame e fuoco per via di catapulte o comunque con ARMI TIPICHE DA ASSEDIO come quelle registrate in questo antico codice mansocritto e miniato.
Per "leggere" l'ALTURA vale un'indagine toponomastica già guidata da A. Capano (al pari delle analisi geomorfologiche) estratta dal volume Storia della Magnifica Comunità degli Otto Luoghi, Bordighera, 1986, nota 3 pp.63-66: E' localmente detto e Maure (con pronuncia palatale della -r-) il tratto di collina che si estende dal Vallone di San Secondo in direzione di Nervia. II toponimo erroneamente italianizzato in Maule sul modello di para = 'pala' (a), viene ritenuto dal Rossi indizio di presenza saracena (MAURUS = 'moro') (b), mentre il Lamboglia, pur accettandone la derivazione dalla stessa base, gli attribuisce una ragione diversa (MAURUS = 'nero', forse a causa della folta vegetazione) (c). Entrambe le spiegazioni sembrano inaccettabili, poiché l'esito diretto normale di MAURUS in ventimigliese è mouru (come ouru da AURUM: confronta la denominazione dialettale uratoriu di mouri = 'oratorio dei neri', data alla chiesa di San Secondo di Ventimiglia alta) (d).
 
Camporosso (IM): Chiesa di San Giacomo
Inoltre il colle oggi detto DELLE MAURE era chiamato in passato di SAN CRISTOFORO, dal vecchio titolo della attuale cappella di SAN GIACOMO di Camporosso: anche la tipologia di SAN CRISTOFORO -ANTICHISSIMO PROTETTORE DEI VIANDANTI (peraltro non casualmente surrogato dopo la RICONQUISTA DELLA SPAGNA da un SAN GIACOMO certo legato all'idea dei PELLEGRINAGGI = vedi S. JACOPO DI COMPOSTELA IN GALIZIA) è un ulteriore segnale della VALENZA VIARIA DI QUESTO SITO quale terminale di un PERCORSO MARE - MONTI piuttosto noto.
Ne consegue che o Maure non ha rapporti con la base MAURUS, o è termine di origine recente e non popolare. E' probabile che si tratti di una formazione anche non molto antica, dal nome di persona Mauro, che avrebbe soppiantato, nella sua forma ufficiale e latinizzante, quello di San Cristoforo progressivamente caduto in disuso con il perdersi della memoria del titolo originario della cappella (e).

In effetti questo sistema di derivazione di toponimi da antroponimi è piuttosto diffuso nella Liguria intemelia: Bono/i Boi, Franco/i, Franchi, Trucco e Trucchi/ Trucco, Verrando/i Verrandi, Zane (Giovanni)/i Zanin.
Ferma restando in Ventimiglia un'antica tradizione cultuale per SAN CRISTOFORO, le intitolazioni a S. GIACOMO risultarono connesse dal XIII secolo ad una serie di fattori, tra cui, dopo la RICONQUISTA DELLA SPAGNA e le imprese in TERRASANTA, assunsero grande rilievo i viaggi dei PELLEGRINAGGI DELLA FEDE intendendo sotto questo profilo non solo i vaggi verso la PALESTINA e GERUSALEMME ma altresì quelli alla volta di ROMA e dei grandi SANTUARI IBERICI.

In merito all'area strategica della collina delle Maule (Maure) tra Ventimiglia (IM) e Camporosso,  un certo Maurus de Mauris risulta avere, già nel 1260, delle terre in una zona confinante ad oriente con la proprietà di Guillelmus Marosius, a sua volta confinante con il torrente Nervia (f), mentre una famiglia Mauri appare ancora nella stessa zona allo spirare del XVIII secolo (g) = Bibl. toria della città di Ventimiglia di G. ROSSI, p. 31, (c) N. LAMBOGLIA, Toponomastica intemelia, Bordighera, 1946, p. 59: (d) E. AZARETTI, L'evoluzione dei dialetti liguri esaminata attraverso la grammatica storica del ventimigliese, Sanremo, 1982, p. 31.
(e) II testamento di Babilano Curlo, datato 14 aprile 1349 nomina solo una chiesa sancti Christophori de Vintimilio, mentre quello di Iacopina, vedova di Simone Curlo, del 12 settembre dello stesso anno, parla già di una chiesa "sanctorum Xtophori et Iacobi de Vintimilio" (in G. ROSSI, Documenti inediti riguardanti la Chiesa di Ventimiglia, Torino, 1906, p. 22 e segg.).
(f) atto di compravendita del 9 giugno 1260 edito in L. BALLETTO, Atti rogati a Ventimiglia dal notaio Giovanni di Amandolesio dal 1258 al 1264, Bordighera, 1985, p. 248-49, (g) così si legge in una carta del Fogliazzo de Denoncie de Terreni, e Case, risalente al 1798 e conservato presso la Sezione dell'Archivio di Stato di Ventimiglia.....
(a) a fronte di una via Maule nel comune di Ventimiglia, esiste, sul versante opposto della stessa collina, una più corretta via Maure nel Comune di Camporosso, (b) S
Le indagini, in sito, sul San Cristoforo (o e Maure) risalgono al 28, 29 30-X-1985: "la sezione ovest della collina detta ora delle Maure dove sorgono le rovine di cui si disse nel testo, è segnata a nord-ovest dal nord-ovest dal rio Resantello, meglio noto come Vallone di San Secondo, a sud-est dal ruscello detto Riana delle Vacche, a sud-ovest dalla linea ferroviaria Ventimiglia-Genova; per il lato nord-est le Maure si perdono nella retrostante catena montuosa. La vetta del colle (204 m.) è conformata da un promontorio roccioso relativamente elevato sul pendio circostante, a sua volta verso i 100 m. coronato da un sistema di rocce alto circa 20 metri. La base del colle è, per tre lati, costituita da una parete di puddinga a strapiombo, cui si accede per una sola via presso lo sbocco del Vallone di San Secondo. Le strutture murarie superstiti sono individuabili in lati settentrionale, meridionale, orientale, e nel "castello" cuspidale. In genere le mura, alte da 4 a 6 m. e larghe circa 1 m. e dieci, sono di pietre non squadrate e mattoni: sulla sommità si individuano i resti di un camminatoio anticamente protetto verso l'esterno da un parapetto a rada e bassa merlatura (casualmente le mura sono attraversate da fori difficili da giudicare, e certo non feritoie). Del lato nord è superstite un tratto di mura lungo 50 metri che, dalla prima cintura di rocce, perviene alla mulattiera di S. Giacomo. Per quanto scoperto od appurato si suppose che in modo anfrattuoso il muraglione giungesse sino ad un punto da segnalarsi tra il vecchio posto di blocco B delle F.S. ed il Ponte sul Vallone: secondo vecchie testimonianze ancora 60 anni fa presso l'attuale chiesa di S. Secondo esisteva una porta nella struttura. Verso l'interno della citata superstite muraglia, circa a metà, sopravvive una bassa costruzione, fatta con la stessa tecnica usata per i muri, di circa otto metri quadrati, con volta ad arco, tetto piano, una porticina ed una finestrella realizzata posteriormente: nominata dalla tradizione come baracca del corpo di guardia.
La barriera rocciosa che poneva termine al Lato nord delle mura si superava con il cammino dei chiodi fatto di scalini scavati nella puddinga o, nei siti piu ardui, di grossi chiodi, dei quali intiero ne sopravvive uno lungo un palmo e spesso due dita.
Il Lato meridionale e fatto di due tratti di mura. I1 primo, disposto a scalinata, congiungeva la barriera di rocce più bassa con la superiore: le mura, lievemente meno larghe, forse non avevano camminamento, tranne che per la costruzione abbastanza massiccia della porta sud, sotto la quale transitava fino a poco tempo fa la via Maule. Tale porta, demolita qualche anno fa, era larga circa tre metri, e alta poco piu, ed era formata da due pilastri e da un lieve arco, il tutto in mattoni. In uno dei pilastri compariva un grosso buco, in cui penso venisse infilata la spranga per sbarrare la porta...
>> (A. CAPANO, Le fortificazioni delle Maure, in "La Voce Intemelia", 1977, Agosto-Settembre). La parete rocciosa inferiore è poi tagliata in rozzi, aspri scalini magari superabili col citato sistema dei chiodi o con l'ausilio di una corda. Il secondo tratto murario del Lato sud parte dal vertice della seconda barriera di rocce e, dopo aver seguito per una ventina di metri il costone, risale in linea nord-est (ben individuabili sono il camminamento ed i parapetti): per gran tratto la struttura muraria e ora diruta ma ben rico- struibile sino al terminale di un'altra rovina isolata ma in linea retta coi reperti di partenza. Da quest'ultima struttura si può poi esaminare il Lato orientale dell'organismo murario: ben presto in linea sempre nord-est ci si imbatte in un edificio di 5 metri per 6, con volta ad arco e tetto piano, la parete di fondo e rocciosa, patinata di verde sino ad una certa altezza a testimonianza di qualche deposito idrico. Probabilmente era una cisterna, la cui piccolissima porta venne poi murata, per aprire, in epoca imprecisata di future rivisitazioni e modificazioni una nuova porta, lato ovest.
Continuando l'ispezione sulla stessa linea ci si imbatte in uno strettissimo pozzetto semicircolare, con tetto a cupola e porticina volta verso la zona d'ombra della collina: profondita dai 7 ai 10 metri.
Qualche metro oltre si individua un altro pozzetto poi demolito in parte (recentemente) per giungere ad un vano sotterraneo, usato quale cisterna.
La vetta del colle (m. 204) porta invece i resti del CASTELLO: una piccola fortezza circolare con l'ingresso verso S. Giacomo di cui sopravvive: 1) un tratto di muro alto dai cinque ai sei metri con camminamento e piccola porta al centro. In esso si trovano, in corrispondenza di altrettanti pilastri, tre grossi buchi, in cui forse poggiavano le travi sostenenti un secondo piano, a circa tre metri da terra, 2) alcuni tratti di fondamenta- 3) dei muraglioni di sostegno del terreno che presumibilmente costituivano la base di muri piu alti; 4) una base spessa e con angoli smussati(Ibidem).
Ad oriente delle mura dell'edificio si individua un vano sotterraneo quadrangolare (4 X 4 metri), ricavato nella roccia, con volta ad arco, che si ritenne resti di una sorgente protetta verso l'esterno da un pezzo di muro a gomito. Sotto il balzo a nord della fortificazione, inindividuabile da questa come dal mare, si trova un cortile lungo 35 metri per 6 circa di larghezza, protetto verso il Vallone di S. Secondo da un muro non potente ma con porta da forte pilastro: nella parete rocciosa che su di esso sporge vi sono due anguste grotte, una delle quali pur essendo esterna alla fortificazione ostenta all'entrata tracce di muratura.
L'analisi del sito conforta l'ipotesi antica di un campo fortificato, difeso con mura (nord e sud) e naturali barriere rocciose (est; e forse ancora ad ovest per il tramite di una perduta striscia di mura): una fortezza al centro ideale del campo si appoggiava ad altre costruzioni di scopo militare o di sussistenza.
L'analisi del materiale fittile, delle tecniche di costruzione e l'ideale ricostruzione storica, su dati e fonti scritte, portano a retrodatare, al XIII secolo almeno l'organismo: tanto da rimandarne la realizzazione ai Genovesi assedianti Ventimiglia.
Ne Il Manoscritto Borea in "Collana Storico-Archeologica della Liguria Occidentale", Bordighera, 1970, p. 18, anno 1221 leggesi: "in quest'anno pure fu edificata al di qua di Ventimiglia la CITTA' NUOVA... BASTIA ossia luogo di fortificazioni.
Sulla base di due IMPORTANTI TESTIMONIANZE (un documento del 1537 del corografo Giustiniani ed un censimento del 1629 del territorio intemelio (doc. in "Archivio di Stato di Genova, n. 218, Fronte, 1 foglio, voce: "Ventimiglia") fatto per ordine dei Supremi Sindicatori sembrerebbe alludersi con chiarezza ad una BASTIA (detta anche SASSO) identificabile proprio con tale sito tra Nervia e Roia, non lungi dal sito del Convento di S. Agostino. Giustiniani parla della BASTIA quale borghetto cioè sobborgo intemelio, presso il Convento di S. Agostino; i Sindicatori nel censimento del 1629 nominano una BASTIA o sia SASSO presso tale Convento, giuridicamente e logisticamente distinta dal Borghetto o Bastia sobborgo presso il S. Cristoforo, poi nominato in parte Maure...

da Cultura-Barocca


sabato 6 ottobre 2018

Assalti turcheschi a Taggia (IM) ed immediati dintorni

Taggia (IM): Porta Pretoria
Dal XIV secolo l'Islam, ormai completamente soggetto all'IMPERO OTTOMANO, aveva, per il tramite di una rete di contatti, la sua percezione geografica del mondo occidentale; e Rasciddodin, Primo Ministro degl'Ilkhanidi a Tabriz, nel Giame ot tavarikh ("Raccolta delle Storie") aveva forse un'idea ancora confusa della Liguria, ma già ne comunicava i confini, l'importanza strategica, la potenza economica e commerciale: " ... Accanto a tale territorio (Francia) c'è un altro paese assai florido e molto popoloso, si chiama Genova, e possiede duecento galere, ciascuna equipaggiata di trecento guerrieri. I mercanti Franchi che viaggiano per l'Egitto, la Siria, il Maghreb, o per Bisanzio e Tabriz, partono in nave da quel fondaco... ".

Pur con qualche incertezza (la Capitale Genova nomina nel brano tutto il territorio ligure), Rasciddodin aveva già alcune cognizioni importanti e parlava di ricchezze di un territorio, che, due secoli dopo, non sarebbe stato così ben difeso; Babur e soprattutto Evliya Celebi nel Seyahatname ("Diario di Viaggio") furono i più brillanti, potenti e dotti rappresentanti letterari dell'espansionismo turco verso un'Europa, nel XVI sec. sconvolta da rivalità tra Francia, Impero, Spagna e Piemonte con Genova indebolita e quasi serva degli Iberici.

Molti libri parlano oggi delle scorrerie della flotta ottomana sul Ponente ligure, quando dall'armata turca, congiunta ad un contingente navale francese, davanti a Nizza sabauda ed assediata si staccavano di mano in mano nuclei di vascelli, per lo più galeotte, che si spingevano a predare sulla vicina ed indifesa costa del territorio della Repubblica di Genova.
Il 20 Agosto 1563 (documento 3 e documento 4), quando l'ammiraglio barbaresco o turchesco Ulugh-Alì fece ripetute razzie, specie in occasione dell'ultima data, allorché, nonostante il cannoneggiamento del forte di San Lorenzo, i suoi uomini secondo il Podestà di Sanremo avrebbero catturato 400 persone tra le località di Terzorio, Cipressa e Pompeiana: più precisamente il Podestà di Taggia Pantaleo Carrega, pur non citando i catturati di Cipressa, precisò che 80 prigionieri erano di Pompeiana, spettandone 72 al Feudo di Pompiana Maior sotto giurisdizione per Genova di Giacomo Maria Gentile, mentre 8 erano di Pompiana Minor della Podesteria di Taggia e quindi di diretta amministrazione genovese (90 furono i catturati a Terzorio).
Questi sventurati, tra cui donne e bambini, vennero radunati sulla spiaggia degli Aregai [sulla carta settecentesca vinzoniana scritta "Spiaggia degli Annegati" e, vedi n. 16 nella stessa carta, sorvegliata da una Torre degli Aregai talora anche detta forte degli Aregai], mentre i loro paesi saccheggiati erano in preda alle fiamme, e furono imbarcati con destinazione Algeri, dove sarebbero stati venduti quali SCHIAVI.
In particolare Nilo Calvini (in merito agli assalti nel Ponente ligure della flotta turchesca) riporta una lettera di uno schiavo in Algeri, dove si parla (20 Luglio 1564) di ulteriori preparativi per un assalto alle muraglie di Taggia, più precisamente dell'allestimento di un copano (erroneamente scritto o trascritto capano), una sottile imbarcazione, un palinschermo leggero da laguna il cui etimo deriva probabilmente dal latino caupalus e sicuramente dal latino medioevale copanus, che nominò in genere un tipo di barca spagnola e portoghese.
Come scrisse lo schiavo in Algeri, Ulugh-Alì se ne sarebbe valso "per derivar le muraglie", cioé per essere affondato carico di materiale di riporto in prossimità delle fortificazioni del luogo e così deviare il corso d'acqua o lo sbarramento idrico, che ne faceva da primo schermo difensivo e rendere quindi fattibile un assalto diretto alle fortificazioni.

La forte TAGGIA (IM), con autorizzazione del Senato, ma a spese della Comunità, dal 1540 si era andata dotando di una buona cinta muraria, i cui lavori con lunghe pause terminarono soltanto nel 1564, essendo stati ripresi sveltamente dopo l'assalto del 28 Giugno 1561: dalla relazione del Calvi apprendiamo che la grossa Taggia, come previsto nella lettera dello schiavo di Algeri fu poi di fatto ASSALITA NEL 1564 ma che l'artiglieria, lo schermo primario alle mura dell'Argentina ed il valore dei difensori ebbero la meglio dei Turcheschi.

Nel 1563 i corsari investirono direttamente i borghi meno forti di Pompeiana, Cipressa e Terzorio: la fortificata Taggia sarebbe stata un "osso troppo duro", tenendo conto che la squadra navale d'attacco ora era di soli 9 vascelli, contro i 17 (o 18) del 1561, e che già in qualche modo aveva dovuto preoccuparsi dell'artiglieria del forte San Lorenzo: Ulugh-Alì, che poi era un rinnegato calabrese di nome Luca Galerni, sapeva ormai che per Taggia era opportuna una forza maggiore, un copano per deviare le acque, le "scale di corde e i ganci di ferro", oltre che una adeguata attrezzatura, per l'assedio e la scalata alle muraglie, e tutto ciò spiega il contenuto della lettera dello schiavo in Algeri che nel Luglio 1564 paventava, su fondate voci, un massiccio assalto a Taggia.

Per ironia della sorte la forza di dissuasione di Taggia spinse in due riprese questi predatori verso POMPEIANA: il paese era povero, la Comunità a sue spese difiicilmente si sarebbe potuta armare e fortificare contro i Turcheschi, per giunta guidati da cristiani rinnegati, a volte ottimi conoscitori dei siti, come nel 1561 un tal Nasomozzo di Pompeiana.

Le TORRI DI AVVISTAMENTO E DIFESA, che sarebbero state 7 secondo lo Zunini, non erano in gran parte ancora realizzate e la loro capacità era più di preavviso: con una luce intermittente, nei tempi pericolosi della notte, dalla Torre dei Panei si sarebbe dovuto segnalare l'avvicinamento dei nemici (fuoco di brutto"; tante intermittenze quante navi avvistate); la popolazione si sarebbe poi potuta rifugiare nelle torri prossime al borgo, od anche dentro una Parrocchiale, alla quale fossero ridotti gli accessi bassi (questo potrebbe spiegare la monofora murata nella Chiesa di S. Maria Assunta).

Il notaio Filippi, riferendosi ai fatti del 1563, si domandava perché le persone di Cipressa, Terzorio e Pompeiana non si fossero raccolte e quindi riteneva attivi dei ricettacoli, delle case forti o delle torri atte a contenere la popolazione; il Podestà di Porto Maurizio non ritenne plausibile un errore umano, una negligenza (e del resto il cannoneggiare del forte di San Lorenzo avrebbe dovuto creare qualche indiretto allarme) e annotò " ... Però essi (di Pompeiana e Terzorio) loro, come si detto sopra, se l'hanno in parte causata, perché erano avvisati...": a rigor di logica la presunta negligenza degli abitanti di Pompeiana e Terzorio può anche essere dipesa dal fatto che nel 1561 le loro proprietà e le loro persone erano rimaste sostanzialmente immuni, rispetto al luogo del Castellaro, che era stato investito e che, per essere sede dei feudatari e quindi più ambito, anche nel 1563 si pensò dovesse essere assalito prioritariamente.

E' difficile individuare la realizzazione, con esatta indicazione cronologica, delle Torri in Pompeiana e quindi si va per ipotesi: l'unica certezza sta nell'impreparazione del 1563, cui si allega a giustificazione l'impotenza del genovese Magistrato delle galee, che, disponendo di sole 4 galee (e poi addirittura 3), tassò la popolazione delle Riviere per potenziare, senza risultati, la flotta e lasciò alle iniziative e alle deboli finanze locali l'onere delle fortificazioni, mentre il Governo emanava Grida che sarebbero dovute essere norme vincolanti, ma che di fatto erano banali consigli del tipo che ciascuno dovesse " ... provedere a la salute sua e dei suoi beni in quel milior modo che li sarà più comodo, quando si inviasse (giungesse) detta armata, o parte di quella, per questi nostri mari...", oppure suggerendo che nel caso di arrivo dei Turcheschi " ... Ogn'uno si alegerisca delle sue cose, per evitar così persone inutili, cioè: donne, putti, e vecchi inhabili come i beni... (come a dire che nei borghi dovessero rimanere solo uomini vigili e militanti - A. Bacherini, Sanremo Antica, Torino, 1962, I, p. 187 e sgg.).

Il sistema di Torri in Pompeiana, comunque, a prescindere dalla qualità e dai tempi di funzionamento, sopravvisse come estremo baluardo di difesa fino al sec. XVIII, anche se dal 1566 la pressione turchesca andò scemando e forse continuarono la loro attività predoni più antichi, come i lupi, di cui Padre Calvi, cronista dei Domenicani di Taggia, scrisse " ... In quel tempo (1535) irruppero, nella zona detta degli Allegari molti lupi vespertini, famelici, divoranti non solo greggi ma anche gli uomini...": i pirati e poi le pestilenze né stornarono la paura, ma a lungo rimasero in agguato!: tanto che ancora nell'800 ne parlò il Canonico Lotti!

 ALLEGATI


 LETTERA DI UNO SCHIAVO IN ALGERI

" Carissimo Cognato, questa sera per darli aviso como per la gratia di Dio sono sano et anchor li miei figlioli et le vostre anchor stano benisimo et vi si racomandano et ogni giorno stavo inseme con luoro. Et perche avemo inteso qua in Algeri che voleno venir per Taglia et per quanto ho inteso che Aciovall deve meter in ordine schale di corde et ganci di fero, pero vi prego abiatevi bona cura et fatte far che siatte sicuri perche questi sono grandamente disperati per non aver fatto prese nisune.
Et vi prego che faciate intendere a questi nostri in Taglia che s'abiano bona cura peroche una sera over matina ne veranno sopra che non ve ne acorgerete; et hora cominciano a stirminar trenta o trenta cinque vaselli, questo di 16 luglio presente, siche vi prego caramente farlo intendere per sino in signoria aciò possano dar ricapito a le sue terre.
Et queste l'ò avuto da renegatti che stano sopra li vaseli molto secretamente et m'ano ditto che portera doi o trei canoni per mettere in terra. Et potete intendere quali che sono che m'ano ditto tale cosa che sono paesani nostri, et uno paesano che stava con doi cento Turchi che volevano andar a Barauccho et se il capitano loro non era ferito di dui archibusate lo pigliavano.
Però fatteli intendere che m'ano ditto che li voleno tornar; et che sono statti per sino in San Salvator et anchor li farete intendere a quelli di Seriana che faciano bona cura che anchor loro sono in la orma.
Et doi nostri paesani che fanno questo officio di volerli portar li ano promessi di farli pigliar un milion d'oro et per questo li vene di bona voglia. Et vi dicho di più che portano sto capano* per derivar le muraglie et pali di ferri venti cinque. Et vi dicho che li avesino quando che venero. Et questo ve lo dicho che li ò visti me di veduta.
Et ho veduto comperar li organi et li ferri per far le ostie, non me li à voluto donar che li dava scudi vinti cinque. Et li libri del convento. Et un renegatto che e statto in lo convento et che a veduto doi Turchi che tiravano friciate a Nostra Dona et che le tiravano in ochi et mi ha detto che subito che furno in Cattalogna le prime archibusatte che furno tiratte li donar in li ochi a loro, però a me pare che sia statto gran miracolo che a fatto il Signor Idio in castigarli del medesimo flagelo.
Et anche dite a queli del Castela che faciano le porte di ferro che se li an fatto mai di bisogno li faran hora.
Et non mi ocorendo altro se non che fattene bona provisione in le tere et statte de bon animo et combattete valerosamente per amor di Dio, et per la fede nostra et nostre robe et figlioli.
Et ancor mi vi ricomando con li miei figlioli et a mia molgera io l'o mandata et mi ricomandate a le mie sorele et a miei cugnati et parenti et amici, et mi ricomandate a mio socero messer Giorgio Barla, et a tutti li suoi di casa.
Et il figlio di Bastian Cergo se ricomanda bene a sua madre et a suo barba Berto Filipi et che non si pigliano fastidio di ricattarlo che tiene speranza in io che lo debia aiutar.
Et Filipo Nivoron se ricomanda a sua molgera et a li suoi figlioli et parenti et amici. Simon Garibaldo se ricomanda a sua sorela et a suo cugnato Batista Filipo condam*... et lo prega che venda tutto il suo et che lo mandano a ricattar, et li da posanza che possano vendere ogni cosa et li prega che se nisun (qualcuno) li volesse impedir, che vada in Signoria che li darian un dicreto che possa vendere. Ne altro.

Da Algeri il dì 20 luglio 1564.

Et vedo ogni giorno questi nostri di Pompiana et li pregano che li vogliano ricattar afinche non debiano rinegar la fede. Il figlio di Simon del Cogno che sta in Fesa se mi dattano aviso che lo facio rischatar; il patron di mia figlia mi à promesso che lo farà portare in Algeri overo, se voro andar, mi mandarà con merchanti et tornar con merchanti.

Vostro bon cugnato

Giacomo Filipo condam* Antonio".

* intendi = copano; condam per quondam = "figlio del fu".

 
26-VI-1561: "Assalto a Castellaro" in Cronaca del Calvi

" Anno del Signore 1561, 26 giugno (era però il 28 giugno). Di buon mattino si avvicinò al nostro litite presso il capo San Siro la flotta turca, comandata dal pirata apostata calabrese Luzalino. Mentre essi erano vicini alla spiaggia, era presente Battista Arlotto, onesta persona di Riva di Taggia, che attese il loro sbarco. Ma appena vide che essi cominciavano a scendere, a gambe levate, si diresse di gran corsa a Taggia e informo di tutto quello che aveva visto i nostri che erano gia preparati. Tutti, avendo gia ciascuno un posto prestabilito, si schierarono coraggiosamente per la difesa della patria. Giunsero intanto i nemici ordinatamente fino al luogo detto l'Anguilla e San Marino, e qui si trattennero un poco. Meta di essi si fermo, l'altra parte invece si diresse verso il ponte, e mentre qui indugiava, Antonio Berruto, comandante della rocca detta della Beata Vergine, che sorgeva dove ora e il convento dei Cappuccini, con un colpo di cannone ne ferì alquanti. Subito essi retrocedettero lungo la via che conduce a Castellaro. L'altra parte che era presso la chiesa di San Martino sal' verso il monte dalla medesima via e con giuntisi tutti, devastarono le difese di Castellaro, prendendo pochi prigionieri perché quasi tutti erano fuggiti.
I Turchi, proseguendo la salita sui monti fino alla cappella di San Salvatore, raggiunsero Pietra Bruna, Boscomare e distrussero e bruciarono tutti gli altri paesi. Fornivano aiuto e guida per tutti questi disastri alcuni "pessimi" dei nostri, che fatti prigionieri da quei barbari, avevano rinnegata la fede cattolica. I tre loro capi si chiamavano: uno Marco di Civezza, il secondo di Riva di Taggia era detto il Gonnella, il terzo di Pompeiana era detto Nasomozzo (o Naso marcio). Essi non miravano ad altro che alla rovina della loro patria, ma tutti miseramente perirono. Accadde anche un caso degno di memoria: mentre devastavano Cipressa, il rettore di quel popolo, un devoto sacerdote di nome Pietro Bosco, vedendo i suoi parrocchiani che da liberi erano condotti in schiavitù, come un secondo Eliseo ed Ezechiele, profeti di Dio, li seguiva invisibile in mezzo ai nemici ".


26-VI-1561: "Assalto a Castellaro" in "Relazione del Podestà di Taggia"

"Ill.mi e molto Magnifici Signori Ossequentissimi

Questa notte fra le tre e le quattro hore sono comparse in mare sopra del nostro cavo vaxeli turcheschi da XVII in XVIII e vi sono state temporeggiando sino a l'harba; e poi si sono retirati sopra il nostro fiume in terra et hano sbarcato la fantaria la qualle, in stollo grande, è venuta per via del nostro fiume alla volta della terra per dar l'asalto; ritrovandoci noi benissimo in arme et con bona diligentia et animo, se siamo posti a le defesse et havendoli monstrato la fronte valorosamente et salutandoli con artegliaria si sono subito riterati et rivorti per detta via del nostro fiume al Castellaro, luogo del Magnifico signor Iacopo Maria Spinola, vicino a noi da un miglio in circa; nel qual luogo hano fatto preiza di persone e robe, ma per esser la cosa in fatto non potemo sapere lo numero precisso de persone, dubitiamo però che il numero non sia grande e maxime di done e puti. Con meglior comodita si darà raguaglio più minutamente a Vostre Signorie Illustrissime alle quali humilmente me racomando che Idio le conserve felici.
Da Taggia a dì XXVIII di giunio del 561

Di Vostre Signorie Ill.me humile servitore

Ioanni de Marino podestà".


Presso l'Archivio di Stato di Genova (Sala Senarega, n.410) Nilo Calvini ha individuato una lettera ufficiale del Podestà di Sanremo Luca Spinola che ragguagliava la Signoria del pericolo occorso dalla podesteria per effetto di un assalto di pirati turcheschi.
La missiva dice:"Illustrissimo Signor Duce e magnifici Signori Governatori, so, dico qualmenti questa notte passata, a le 5 hore, capitò qui 9 galeote le quali si accostarono alla spiaggia e calorno gente in terra e puoi all'alba ne capitò altre 6 le quali medemamente calorno gente e ne deteno asalto grandissimo per doe volte a li quali, mediante l'iuto di Nostro Signore, havemo dato buona risposta combattendo per spacio di 8 ore. E se ne sono morti parecchi. Puoi si sono imbarcati e per quello che puosso giudicare hano preso parecchie done e puti per queste vile. Non si è potuto far altro essendo qui puocca gente, ché sono fuora. Pregiamo Vostre Signorie Illustrissime si contentino mandarne qualche provviste, cioè di polvere, sarte da balestra e corda d'archibuggi e piombo facendolene puoi, passate le furie, pagar ogni cosa, non prima. A Vostre Signorie Illustrissime quanto puoso mi racomando e priego mi dieno posanza da puoter comandare l'ordinar le ville vicine ne dieno soccorso e aiuto bisognando; e così comandar qui sotto gravi pene perché sono puocco ubbidienti. Nostro Signor Iddio a Vostre Signorie Illustrissime presti longa felicità e a noi doni vittoria. Da San Remo a li VII d'agosto a hore 15 del XLIII/ Luca Spinola".
In effetti la tradizione sostiene che i barbareschi, non riuscendo ad aver ragione della città, si diressero nella VALLE DI VEREZZO (trovando naturalmente meno resistenza, di modo che poterono rapire donne e bambini) e vi fecero razzie finché non furono raggiunti dal podestà Luca Spinola che, nello scontro alla PARA' presso Verezzo avrebbe avuto la meglio su di loro sin a costringerli alla ritirata.

[Nella narrazione dell'anno 1564, in merito all'assalto dei Barbareschi a Taggia, nella sua Cronaca, il Padre Calvi scrive:]
"Poiché questo anno fu denso di sventure per il nostro convento a causa dell'arrivo dei pirati, ho stimato opportuno narrare quanto ho spesso sentito raccontare da mio padre Sebastiano Calvo che era presente a quell'epoca e combattè (io ero ancora un bambino) e ho inserito qui brevemente anche quanto raccontavano altri uomini degni di fede. Le cose dunque andarono cosi .
Tre nefandi uomini meditavano l'estrema rovina delle nostre terre e con l'aiuto di altri malvagi convinsero Luzzalino capo delle galee africane di venire, con il maggior numero possibile di navi, a depredare le nostre popolazioni, che secondo loro erano molto ricche, indifese, di facile conquista. Quel rinnegato diede loro ascolto e radunato un gran numero di Arabi con circa 20 galee e l' aiuto di eretici francesi, approdò più volte a questi mari con grande paura dei nostri abitanti.
diressero verso il nostro convento che i monaci fuggendo avevano lasciato aperto. Subito i Turchi non osarono entrare pensando che vi fosse un tranello; dopo aver atteso un po' tentarono di entrare dalla parte del giardino e ruppero l'inferriata. Alla fine entrarono nel nostro convento e portarono via tutti i letti, lenzuola e tovaglie, sia di lana, sia di lino. Non il secchio e le conche perché il terziario fra Antonio li aveva gettati nella cisterna. Portarono via il pane, il vino, la farina e tutti i commestibili.
Dalla biblioteca rubarono la Somma di S. Tomaso; rovinarono alcuni codici di libri di leggi, altri ii portarono via: da ciò si capisce che insieme ai Maomettani che non conoscevano quei libri c'erano anche dei Francesi assai dotti, che compirono quelle malefatte. Non salirono sul campanile perché di là non portarono via nulla.
Dalla chiesa invece rapirono ciò che ritennero utile, cioè i libri corali che, come ho già detto, ora sono a Tolone; lasciarono l'Antifonario dell'Avvento perché allora non era ancora finito ed era sulle tribune del coro. Rubarono tutte le campanelle, fracassarono gli altari, anche quello dei santi martiri Lorenzo, Sebastiano e Stefano, costruito in laterizi, ma dorato e finemente decorato; bruciarono il pulpito; rovinarono con la scure un crocifisso nella faccia, petto e mani, come si può ancora vedere sebbene sia stato riparato. Ruppero e asportarono le canne dell'organo fabbricato da poco; spaccarono il tabernacolo costruito in bianchissimo e lucidissimo marmo; come pure con pari empietà le pile per l'acqua bendetta, fatte con il medesimo marmo, e le lapidi dove erano ricordati Andrea de Bonifaciis per la cappella di S. Vincenzo, di Luca Roggero per la cappella di S. Maria Maddalena delle quali lapidi ricordo di aver visto i frammenti.
Si scagliarono anche contro l'altare del SS. Rosario che era circondato da colonne di marmo bianco, e le ruppero con la solita furia, e le ridussero a pezzi. Ritornata la calma tutto fu riparato dai frati e con le elemosine; qualcosa subito, altre cose non molto tempo dopo.
Uccisero anche un maiale e lo collocarono in mezzo alla chiesa, come un cadavere umano, in derisione delle cerimonie religiose.
Il doge e i governatori della nostra repubblica avvertivano che il pericolo era grandissimo quando la potente flotta si faceva vedere. Il podestà e gli Anziani e le autorità diedero ordine che le cose più belle e preziose della nostra chiesa fossero trasferite in città per non essere facile preda dei nemici; come anche le scale e il legname che poteva essere utile ai nemici per l'assalto alla città.
In molti luoghi [annota ancora nella sua Cronaca il Padre Calvi trattando dell'assalto dei Barbareschi a Taggia] furono collocate le sentinelle e fu fatto tutto il possibile per la difesa della città. Il 10 giugno quella potente flotta si presentò ai nostri, e nella località detta l'Arma, dove è quasi un porto, sbarcarono sulla spiaggia un grosso gruppo di loro armati, in località dove non potevano essere visti dai nostri e dove stettero nascosti. Le galee invece finsero di navigare verso l'alto mare e di allontanarsi. Invece al mattino del giorno 11 comparvero di nuovo e sbarcarono altri uomini in località La Ciappa, i quali si riunirono a quelli lasciati nella notte nei nascondigli. Tutti insieme diressero verso il nostro convento che i monaci fuggendo avevano lasciato aperto. Subito i Turchi non osarono entrare pensando che vi fosse un tranello; dopo aver atteso un po' tentarono di entrare dalla parte del giardino e ruppero l'inferriata. Alla fine entrarono nel nostro convento e portarono via tutti i letti, lenzuola e tovaglie, sia di lana, sia di lino. Non il secchio e le conche perché il terziario fra Antonio li aveva gettati nella cisterna. Portarono via il pane, il vino, la farina e tutti i commestibili.
Dalla biblioteca rubarono la Somma di S. Tomaso; rovinarono alcuni codici di libri di leggi, altri ii portarono via: da ciò si capisce che insieme ai Maomettani che non conoscevano quei libri c'erano anche dei Francesi assai dotti, che compirono quelle malefatte. Non salirono sul campanile perché di là non portarono via nulla.
Dalla chiesa invece rapirono ciò che ritennero utile, cioè i libri corali che, come ho già detto, ora sono a Tolone; lasciarono l'Antifonario dell'Avvento perché allora non era ancora finito ed era sulle tribune del coro. Rubarono tutte le campanelle, fracassarono gli altari, anche quello dei santi martiri Lorenzo, Sebastiano e Stefano, costruito in laterizi, ma dorato e finemente decorato; bruciarono il pulpito; rovinarono con la scure un crocifisso nella faccia, petto e mani, come si può ancora vedere sebbene sia stato riparato. Ruppero e asportarono le canne dell'organo fabbricato da poco; spaccarono il tabernacolo costruito in bianchissimo e lucidissimo marmo; come pure con pari empietà le pile per l'acqua bendetta, fatte con il medesimo marmo, e le lapidi dove erano ricordati Andrea de Bonifaciis per la cappella di S. Vincenzo, di Luca Roggero per la cappella di S. Maria Maddalena delle quali lapidi ricordo di aver visto i frammenti.
Si scagliarono anche contro l'altare del SS. Rosario che era circondato da colonne di marmo bianco, e le ruppero con la solita furia, e le ridussero a pezzi. Ritornata la calma tutto fu riparato dai frati e con le elemosine; qualcosa subito, altre cose non molto tempo dopo.
Uccisero anche un maiale e lo collocarono in mezzo alla chiesa, come un cadavere umano, in derisione delle cerimonie religiose.
Che dire poi degli oggetti lasciati dai frati in chiesa o in sacrestia per l'uso quotidiano? Non lasciarono assolutamente nulla: rubarono le cose a loro utili, ruppero, calpestarono, annientarono le inutili.
Della rovina di questa povera casa (cioè del convento di S. Domenico) ho detto abbastanza. Ora parliamo della città.
I nemici si piazzarono nelle località dette La Croce, il Chiazzo e Fascia Longa dilagando dappertutto come cavallette. Con frecce e schioppi di cui erano bene armati e pratici tentarono cacciar via i nostri dalle mura e dai bastioni. Ad un certo Antonio Oliverio, figlio di Ludovico, uomo di alta statura, portaron via dal capo il berretto rosso con una freccia. Dalla fortezza presso il nostro convento, con grandinata di frecce e colpi di schioppo quasi cacciaron via i nostri soldati, tirando dal monte superiore in altezza a quel vicino bastione.
Allora il nobile Pietro Curio, capitano di quel bastione corse subito ai ripari: comandò di sistemare nei punti più elevati dei materassi di lana, dentro i quali si conficcarono le palle senza danno dei nostri soldati.
Accadde anche che un turco mentre cercava di abbattere la croce di legno piantata sulla strada che conduce al nostro convento, fu ucciso da una palla sparatagli con un fucile dalla rocca inferiore, presso il fiume. La stessa cosa successe nella rocca superiore; infatti quando un nostro combattente, detto Battolo Roggero, figlio di Nicola, vide un turco che con grandi colpi tentava di spaccare le porte della torre che è in Fascia Longa (anticamente chiamata dei Bosio) egli con un suo archibugio che aveva una canna lunga sette palmi, lo colpì e lo getto a terra giù dalla scala; e difatti poi trovarono il muro sporco di sangue, soprattutto dove era caduto dopo la ferita.
I nostri dunque con armi da fuoco sparate dalle fortezze dette del Convento, della Biscia, dalla rocca superiore e dalle mura fecero sì che i nemici, dopo circa sei o sette ore di combattimento, ritornassero alle loro galee. Essi persero in morti e feriti molto di più di quanto avevano guadagnato nella depredazione del nostro convento.
Molti dei loro infatti morirono sebbene abbiano portato via i loro cadaveri e li abbiano sepolti in luoghi segreti. Del nostri solo uno fu ferito ad una gamba, trafitto da una freccia, mentre, troppo curioso di vedere i Mori, si era scoperto, offrendosi alla vista dei nemici. Fu ferito ma guarì.
Dopo la loro partenza furono trovate molte macchie di sangue in particolar modo sul muro del nostro oliveto dove un nemico stava seduto e poteva esser visto dalla vicina rocca; di là Vincenzo Cappone figlio di Domenico, detto Stanga, lo buttò giù; là si trovò il muro sporco di sangue e il suolo inzuppato.
Vi è una casa di campagna, nel luogo detto Colletto, ora con vigna posseduta da Giovanni Battista Reghezza figlio di Lorenzo, nella quale i nostri trovarono gran quantità di scudi e stracci sporchi di sangue: i nostri pensarono che i Turchi avessero là trasportato e medicato i feriti.
I Mori dunque scrutarono da lontano ma attentamente il ripido monte, la valle profonda, e le mura ben fortificate e rinunziarono a tentare la scalata sebbene avessero portato molte scale per l'espugnazione della città".

[Continuando nella narrazione dell'anno 1564, in merito all'assalto dei Barbareschi nella sua Cronaca il Padre Calvi offre importanti considerazioni non soltanto sullo schieramento dei difensori di Taggia (tra cui dimentica solo Raffaello da Cremona, capitano mandato da Genova per sottolineare i cui meriti gli Anziani del Comune di Taggia gli rilasciarono una "Lettera lodevole di congedo", tuttora custodita all'Archivio di Stato di Genova in "Sala Senarega", n. 472) ma contestualmente anche sulla CINTA MURARIA e sul SISTEMA DI FORTIFICAZIONI a disposizione di questi stessi combattenti]:
" Prima di terminare il racconto di questa battaglia stimo opportuno riferire i nomi di coloro che con incoraggiamenti, consigli, e con le armi hanno difeso la patria.
Avrei voluto ricordare tutti, affinché di tutti restasse un doveroso ricordo ma chiedo scusa se ho tralasciato qualcuno; ho però ricercato con cura e come meglio ho potuto di indagare su tutto affinché non si perdesse la memoria di sì grandi uomini.
Per primo l'illustrissimo Giovan Battista Aneto, cittadino di Genova, podestà di questa città, a nome del Senato genovese.
Tra i sacerdoti secolari ricordiamo: il canonico Marco Bergonzo, il canonico Giovanni Arnaldo, i reverendi Michele Pastorello, Bernardo Gandolfo, Nicola Rocca Bigliera curato, Bernardo Gastaldo, Guglielmo della Volta, Bernardo Barla, Vincenzo della Volta e Francesco Martino.
Tra i chierici: Andrea Ferrario, Pietro Ardizone, Giovanni Anfosso, Antonio Vivaldo, i quali tutti poi divennero sacerdoti; e Giovanni Anfosso che ancora vive.
Del nostro convento: reverendo padre priore Ludovico de Revello del marchesato di Saluzzo, Serafino Trencherio di Dolcedo vicepriore, Pietro Curio lettore, Marco da Briga scrittore di libri corali, Gerolamo da Garessio, Domenico Sappia di Sanremo, Benedetto Panizza di Badalucco lettore del convento, Gerolamo di Riva di Taggia, Clemente Rosso, Vincenzo da Triora. Chierici e novizi: Giacomo da Dolcedo, Giovanni Pelizia, Vincenzo Roggero, Domenico Curlo e Giovanni Battista Arnaldo.
Conversi e terziarii: Costante e Dionisio da Triora, Giacomo e Filippo conversi, e Antonio tutti e tre da Badalucco, Tommaso Ardizone terziario.
Questi sono i nomi di coloro che ho potuto raccogliere: se ritroverò qualche altro degno di essere ricordato lo aggiungerò affinché nessuno sia privato dell'onore dovuto.
I più importanti laici e aiutanti per consiglio e mezzi furono i seguenti: illustrissimo Battista Aneto podestà genovese; gli Anziani Vincenzo Ardizone dottore in medicina, Cosma Fiormaggio dottore in medicina, Gregorio Ardizone dottore in medicina, Giovan Battista Curlo fu Pietro dottore in legge, Sebastiano Pastorello dottore in legge, Giovanni Antonio Madio dottore in legge, Francesco Novaro dottore in legge, capitano Giuliano Vivaldo fu Enrico, comandante del presidio della piazza, Vincenzo Bergonzio collega del citato Giuliano; Giovanni Ardizone fu Benedetto, Fabiano Asdente fu Domenico, Michele Visconte, Giovanni Ardizone fu Tommaso, Benedetto Littardo, Nicola Gastaldo, i fratelli Vincenzo e Ludovico Vivaldo, Vincenzo, Francesco e Bonifacio Pasqua, Vincenzo Arnaldo, Francesco Arnaldo, Vincenzo e Francesco Reghezza, Nicola Calvo fu Angelo, Sebastiano Oddo, Vincenzo Cappone, Bartolomeo Baccino droghiere, Benedetto Ardizone.
I Capitani e i combattenti e gli altri inservienti (a guardia delle FORTIFICAZIONI DI TAGGIA parzialmente leggibili in questa STAMPA) furono: Antonio Lombardo, Pietro Curlo, comandante del BASTIONE che è proprio vicino al nostro convento, Antonio Cappello comandante della FORTEZZA presso la via della Biscia, Benedetto Priore comandante presso la fortezza superiore vicino alla sua casa, il capitano Antonio Berruto che comandava la fortezza chiamata della Beata Vergine dove è il convento dei Padri Cappuccini, Pietro Giovanni Rosso notaio comandante della FORTEZZA DELLA SS. TRINITA' vicino a casa sua della quale era vicario Domenico Reghezza detto il Mozzo, che è ancora vivo, Benedetto Anfosso Formica comandante della ROCCA detta Al Gombo, Benedetto Violetta combattente alla ROCCA dove termina l'acquedotto distrutto verso i mulini, Francesco Bianco combattente alla FORTEZZA detta Calegaria presso il fiume.
I comandanti e custodi delle PORTE: alla PORTA DELL'ORSO v'era il comandante Antonio Arnaldo fu Bartolomeo, con lui suo fratello Pietro Giovanni, Battista Brizio fu Pietro, Francesco Pastorello, Onorato Novaro, Giovanni Calvo.
Alla PORTA DEL PRETORIO: Vincenzo Bianco e suo fratello Bartolomeo, Pietrino Pasqua, Francesco Revello, Giovanni Revello, Vincenzo Visconte. Alla PORTA INFERIORE DI S. LUCIA: Ludovico Pastorello chirurgo, Giovanni Vivaldo, Paolo Vivaldo, i fratelli Battista e Giacomo Vivaldo solitamente detti Fornerii.
Alla PORTA SUPERIORE DI S. LUCIA:: comandante Michele Priore, Sebastiano Calvo mio padre, Francesco e Giovanni e Vincenzo Pastorello, Paolo Roggero e suo fratello Antonio figli di Nicola.
Alla PORTA DI BARBARASA: presso la fontana: Vincenzo Roggero e altri della sua famiglia.
Alla PORTA BEATA VERGINE IN CANNETO: Pietro Brizio, Bartolomeo Martino, Vincenzo Crespo, Vincenzo Vivaldo, Giovanni Rosso, Lorenzo Lancia, Alberto Sasso.
Alla PORTA CHE CONDUCE A CASTELLARO: Battista Reghezza, Vincenzo Reghezza e Costantino suo fratello, Antonio Calegario, Battista Vivaldo Madala, Giovanni Anfosso detto il Manzo.
Alla PORTA CALLEGARIA presso il flume vi era comandante Lazzaro Callegari e suo fratello Pietro Luigi, Gerolamo Revello, Vincenzo Revello Bacciola, i fratelli Galeotto e Antonio Bosio, e molti altri che erano vicini alla propria casa.
Nella PIAZZA GRANDEa l comando di dodici caporali vi erano trecento soldati pronti a tutti i casi; e affinché il loro ricordo non scompaia ho deciso di ricordare qui i nomi di coloro che ho potuto rintracciare per non privarli dell'onore che meritano soprattutto percheého constatato che furono tutti uomini illustri e degni di ogni onore; Vincenzo Tirocco signifero, Benedetto Orengo e Giacomo Pignasco tamburino, Luigi Marino con i suoi figli Pietro e Giovanni, Domenico Cappono detto Stanga e i suoi figli Battista e Vincenzo, Vincenzo Revello con i suoi figli Tabiasco e Sebastiano, Battista Baccino, Pietro Giovanni Orengo droghiere, Antonio Colombino, Francesco Oggerio Muto, Sebastiano Reghezza con i suoi quattro figli Bartolomeo, Battista, Giacomo e Pietro, Giovan Luigi Oliverio con i suoi figli Giovanni, Antonio, Vincenzo e Bernardo, Antonio Rolando stagnino, Antonio Rolando notaio, Battistino Vivaldo detto Giacheto, Antonio Bertarello con suo figlio Giovanni, Antonio e Lazzaro Bertarello fratelli, Pietro Giovanni Bertarello, Bonifacio Anfosso arciere, con suo figlio Antonio che ancora vive, entrambi di piccola statura ma di forte animo, Domenico Cappone lanaiolo, Vincenzo Anfosso Casella con i suoi figli Giovanni, Battista, Angelo e Ludovico, Simone Reghezza detto Oste, Giovanni Reghezza detto il Mozzo con i figli Domenico e Giacomo; Antonio, Filippo, Domenico, Giorgio e Nicola Boero, Vincenzo Cagnazio, Vincenzo Anfosso, con i suoi figli Lorenzo, Teramo e Bartolomeo, Giovanni Arnaldo fu Vincenzo, Giacomo Bilio e Giuliano suo fratello, Andrea Luca e Giacomo Vivaldo Malizia, Antonio, Francesco, Vincenzo Costanzo Della Volta, Bartolomeo, Bacino, Ludovico Ferraro, Gregorio, Bartolomeo figli, Andrea, Nicola e Giacomo de Ferrari, Vincenzo Garino, Vincenzo Tardivo, Giorgio Tardivo, Vincenzo Ardizone con tre figli, Pietro Ardizone, Battista, Giacomo Bertono, Giovanni e molti degli Anfosso.
Della devastazione del convento fu informato il reverendo padre provinciale il quale fece trasferire altrove i novizi; li accompagno il rev. p. Clemente Rosso.
Tutto il popolo specialmente i nobili e i più ricchi, dolenti per tante disgrazie, provvidero alle angustie dei frati.
Frattanto il p. priore Lodovico Revello esortava in ogni modo i Tabiesi a edificare un FORTE che servisse a tenere lontani i barbari. Molto fu discusso su tale argomento, ma egli un giorno presa una croce si portò processionalmente coi frati nella regione detta Arma e scelto un luogo posto sopra la grotta, dov'è l'oratorio della SS. Annunziata, cominciò a portare sulle spalle dalla vicina spiaggia i sassi per la costruzione della rocca. L'esempio fu imitato da tutti, uomini e donne, senza distinzione di classe, e quel fortino fu mandato a compimento, come ancor oggi lo vediamo per nostra tranquillità.
Tra gli abitanti di Bussana e quei di Taggia sorse per tal fatto una lite, perché quelli dicevano che il fortilizio era costruito sul loro territorio; ma il serenissimo Senato giudicò che questa fortezza si doveva fare in quel luogo, che era il più opportuno sia perché posto sopra un promontorio e protetto da numerose scogliere, sia perché impediva ai pirati di fare approdare le loro triremi nel sottostante luogo che e quasi un porto naturale. Solo deliberò che avuto riguardo alle ragioni del popolo di Bussana, questo doveva pagare la quarta parte della spesa della costruzione.
Scavando per la nuova fortezza si trovò nelle fondamenta di antiche rovine la seguente iscrizione scolpita su bianco marmo reso però rossiccio per il contatto della terra:
All'eterna vittoria dell'invitto Glove Ottimo e Massimo;
Marco Valerio Caminate, restauratore del castello.
Autoicus .
Questa lapide fu posta sopra la porta del nuovo fortino insieme a un'altra, alquanto maggiore di dimensioni, del seguente tenore: I Tabiesi oppressi da frequenti incursioni dei Turchi, per avere, se stessi e i posteri, una sede più sicura, costruirono questa fortezza dedicata alla SS. Annunziata, e vi aggiunsero una lapide molto antica, il 25 marzo del 1565. 


da Cultura-Barocca