sabato 6 ottobre 2018

Assalti turcheschi a Taggia (IM) ed immediati dintorni

Taggia (IM): Porta Pretoria
Dal XIV secolo l'Islam, ormai completamente soggetto all'IMPERO OTTOMANO, aveva, per il tramite di una rete di contatti, la sua percezione geografica del mondo occidentale; e Rasciddodin, Primo Ministro degl'Ilkhanidi a Tabriz, nel Giame ot tavarikh ("Raccolta delle Storie") aveva forse un'idea ancora confusa della Liguria, ma già ne comunicava i confini, l'importanza strategica, la potenza economica e commerciale: " ... Accanto a tale territorio (Francia) c'è un altro paese assai florido e molto popoloso, si chiama Genova, e possiede duecento galere, ciascuna equipaggiata di trecento guerrieri. I mercanti Franchi che viaggiano per l'Egitto, la Siria, il Maghreb, o per Bisanzio e Tabriz, partono in nave da quel fondaco... ".

Pur con qualche incertezza (la Capitale Genova nomina nel brano tutto il territorio ligure), Rasciddodin aveva già alcune cognizioni importanti e parlava di ricchezze di un territorio, che, due secoli dopo, non sarebbe stato così ben difeso; Babur e soprattutto Evliya Celebi nel Seyahatname ("Diario di Viaggio") furono i più brillanti, potenti e dotti rappresentanti letterari dell'espansionismo turco verso un'Europa, nel XVI sec. sconvolta da rivalità tra Francia, Impero, Spagna e Piemonte con Genova indebolita e quasi serva degli Iberici.

Molti libri parlano oggi delle scorrerie della flotta ottomana sul Ponente ligure, quando dall'armata turca, congiunta ad un contingente navale francese, davanti a Nizza sabauda ed assediata si staccavano di mano in mano nuclei di vascelli, per lo più galeotte, che si spingevano a predare sulla vicina ed indifesa costa del territorio della Repubblica di Genova.
Il 20 Agosto 1563 (documento 3 e documento 4), quando l'ammiraglio barbaresco o turchesco Ulugh-Alì fece ripetute razzie, specie in occasione dell'ultima data, allorché, nonostante il cannoneggiamento del forte di San Lorenzo, i suoi uomini secondo il Podestà di Sanremo avrebbero catturato 400 persone tra le località di Terzorio, Cipressa e Pompeiana: più precisamente il Podestà di Taggia Pantaleo Carrega, pur non citando i catturati di Cipressa, precisò che 80 prigionieri erano di Pompeiana, spettandone 72 al Feudo di Pompiana Maior sotto giurisdizione per Genova di Giacomo Maria Gentile, mentre 8 erano di Pompiana Minor della Podesteria di Taggia e quindi di diretta amministrazione genovese (90 furono i catturati a Terzorio).
Questi sventurati, tra cui donne e bambini, vennero radunati sulla spiaggia degli Aregai [sulla carta settecentesca vinzoniana scritta "Spiaggia degli Annegati" e, vedi n. 16 nella stessa carta, sorvegliata da una Torre degli Aregai talora anche detta forte degli Aregai], mentre i loro paesi saccheggiati erano in preda alle fiamme, e furono imbarcati con destinazione Algeri, dove sarebbero stati venduti quali SCHIAVI.
In particolare Nilo Calvini (in merito agli assalti nel Ponente ligure della flotta turchesca) riporta una lettera di uno schiavo in Algeri, dove si parla (20 Luglio 1564) di ulteriori preparativi per un assalto alle muraglie di Taggia, più precisamente dell'allestimento di un copano (erroneamente scritto o trascritto capano), una sottile imbarcazione, un palinschermo leggero da laguna il cui etimo deriva probabilmente dal latino caupalus e sicuramente dal latino medioevale copanus, che nominò in genere un tipo di barca spagnola e portoghese.
Come scrisse lo schiavo in Algeri, Ulugh-Alì se ne sarebbe valso "per derivar le muraglie", cioé per essere affondato carico di materiale di riporto in prossimità delle fortificazioni del luogo e così deviare il corso d'acqua o lo sbarramento idrico, che ne faceva da primo schermo difensivo e rendere quindi fattibile un assalto diretto alle fortificazioni.

La forte TAGGIA (IM), con autorizzazione del Senato, ma a spese della Comunità, dal 1540 si era andata dotando di una buona cinta muraria, i cui lavori con lunghe pause terminarono soltanto nel 1564, essendo stati ripresi sveltamente dopo l'assalto del 28 Giugno 1561: dalla relazione del Calvi apprendiamo che la grossa Taggia, come previsto nella lettera dello schiavo di Algeri fu poi di fatto ASSALITA NEL 1564 ma che l'artiglieria, lo schermo primario alle mura dell'Argentina ed il valore dei difensori ebbero la meglio dei Turcheschi.

Nel 1563 i corsari investirono direttamente i borghi meno forti di Pompeiana, Cipressa e Terzorio: la fortificata Taggia sarebbe stata un "osso troppo duro", tenendo conto che la squadra navale d'attacco ora era di soli 9 vascelli, contro i 17 (o 18) del 1561, e che già in qualche modo aveva dovuto preoccuparsi dell'artiglieria del forte San Lorenzo: Ulugh-Alì, che poi era un rinnegato calabrese di nome Luca Galerni, sapeva ormai che per Taggia era opportuna una forza maggiore, un copano per deviare le acque, le "scale di corde e i ganci di ferro", oltre che una adeguata attrezzatura, per l'assedio e la scalata alle muraglie, e tutto ciò spiega il contenuto della lettera dello schiavo in Algeri che nel Luglio 1564 paventava, su fondate voci, un massiccio assalto a Taggia.

Per ironia della sorte la forza di dissuasione di Taggia spinse in due riprese questi predatori verso POMPEIANA: il paese era povero, la Comunità a sue spese difiicilmente si sarebbe potuta armare e fortificare contro i Turcheschi, per giunta guidati da cristiani rinnegati, a volte ottimi conoscitori dei siti, come nel 1561 un tal Nasomozzo di Pompeiana.

Le TORRI DI AVVISTAMENTO E DIFESA, che sarebbero state 7 secondo lo Zunini, non erano in gran parte ancora realizzate e la loro capacità era più di preavviso: con una luce intermittente, nei tempi pericolosi della notte, dalla Torre dei Panei si sarebbe dovuto segnalare l'avvicinamento dei nemici (fuoco di brutto"; tante intermittenze quante navi avvistate); la popolazione si sarebbe poi potuta rifugiare nelle torri prossime al borgo, od anche dentro una Parrocchiale, alla quale fossero ridotti gli accessi bassi (questo potrebbe spiegare la monofora murata nella Chiesa di S. Maria Assunta).

Il notaio Filippi, riferendosi ai fatti del 1563, si domandava perché le persone di Cipressa, Terzorio e Pompeiana non si fossero raccolte e quindi riteneva attivi dei ricettacoli, delle case forti o delle torri atte a contenere la popolazione; il Podestà di Porto Maurizio non ritenne plausibile un errore umano, una negligenza (e del resto il cannoneggiare del forte di San Lorenzo avrebbe dovuto creare qualche indiretto allarme) e annotò " ... Però essi (di Pompeiana e Terzorio) loro, come si detto sopra, se l'hanno in parte causata, perché erano avvisati...": a rigor di logica la presunta negligenza degli abitanti di Pompeiana e Terzorio può anche essere dipesa dal fatto che nel 1561 le loro proprietà e le loro persone erano rimaste sostanzialmente immuni, rispetto al luogo del Castellaro, che era stato investito e che, per essere sede dei feudatari e quindi più ambito, anche nel 1563 si pensò dovesse essere assalito prioritariamente.

E' difficile individuare la realizzazione, con esatta indicazione cronologica, delle Torri in Pompeiana e quindi si va per ipotesi: l'unica certezza sta nell'impreparazione del 1563, cui si allega a giustificazione l'impotenza del genovese Magistrato delle galee, che, disponendo di sole 4 galee (e poi addirittura 3), tassò la popolazione delle Riviere per potenziare, senza risultati, la flotta e lasciò alle iniziative e alle deboli finanze locali l'onere delle fortificazioni, mentre il Governo emanava Grida che sarebbero dovute essere norme vincolanti, ma che di fatto erano banali consigli del tipo che ciascuno dovesse " ... provedere a la salute sua e dei suoi beni in quel milior modo che li sarà più comodo, quando si inviasse (giungesse) detta armata, o parte di quella, per questi nostri mari...", oppure suggerendo che nel caso di arrivo dei Turcheschi " ... Ogn'uno si alegerisca delle sue cose, per evitar così persone inutili, cioè: donne, putti, e vecchi inhabili come i beni... (come a dire che nei borghi dovessero rimanere solo uomini vigili e militanti - A. Bacherini, Sanremo Antica, Torino, 1962, I, p. 187 e sgg.).

Il sistema di Torri in Pompeiana, comunque, a prescindere dalla qualità e dai tempi di funzionamento, sopravvisse come estremo baluardo di difesa fino al sec. XVIII, anche se dal 1566 la pressione turchesca andò scemando e forse continuarono la loro attività predoni più antichi, come i lupi, di cui Padre Calvi, cronista dei Domenicani di Taggia, scrisse " ... In quel tempo (1535) irruppero, nella zona detta degli Allegari molti lupi vespertini, famelici, divoranti non solo greggi ma anche gli uomini...": i pirati e poi le pestilenze né stornarono la paura, ma a lungo rimasero in agguato!: tanto che ancora nell'800 ne parlò il Canonico Lotti!

 ALLEGATI


 LETTERA DI UNO SCHIAVO IN ALGERI

" Carissimo Cognato, questa sera per darli aviso como per la gratia di Dio sono sano et anchor li miei figlioli et le vostre anchor stano benisimo et vi si racomandano et ogni giorno stavo inseme con luoro. Et perche avemo inteso qua in Algeri che voleno venir per Taglia et per quanto ho inteso che Aciovall deve meter in ordine schale di corde et ganci di fero, pero vi prego abiatevi bona cura et fatte far che siatte sicuri perche questi sono grandamente disperati per non aver fatto prese nisune.
Et vi prego che faciate intendere a questi nostri in Taglia che s'abiano bona cura peroche una sera over matina ne veranno sopra che non ve ne acorgerete; et hora cominciano a stirminar trenta o trenta cinque vaselli, questo di 16 luglio presente, siche vi prego caramente farlo intendere per sino in signoria aciò possano dar ricapito a le sue terre.
Et queste l'ò avuto da renegatti che stano sopra li vaseli molto secretamente et m'ano ditto che portera doi o trei canoni per mettere in terra. Et potete intendere quali che sono che m'ano ditto tale cosa che sono paesani nostri, et uno paesano che stava con doi cento Turchi che volevano andar a Barauccho et se il capitano loro non era ferito di dui archibusate lo pigliavano.
Però fatteli intendere che m'ano ditto che li voleno tornar; et che sono statti per sino in San Salvator et anchor li farete intendere a quelli di Seriana che faciano bona cura che anchor loro sono in la orma.
Et doi nostri paesani che fanno questo officio di volerli portar li ano promessi di farli pigliar un milion d'oro et per questo li vene di bona voglia. Et vi dicho di più che portano sto capano* per derivar le muraglie et pali di ferri venti cinque. Et vi dicho che li avesino quando che venero. Et questo ve lo dicho che li ò visti me di veduta.
Et ho veduto comperar li organi et li ferri per far le ostie, non me li à voluto donar che li dava scudi vinti cinque. Et li libri del convento. Et un renegatto che e statto in lo convento et che a veduto doi Turchi che tiravano friciate a Nostra Dona et che le tiravano in ochi et mi ha detto che subito che furno in Cattalogna le prime archibusatte che furno tiratte li donar in li ochi a loro, però a me pare che sia statto gran miracolo che a fatto il Signor Idio in castigarli del medesimo flagelo.
Et anche dite a queli del Castela che faciano le porte di ferro che se li an fatto mai di bisogno li faran hora.
Et non mi ocorendo altro se non che fattene bona provisione in le tere et statte de bon animo et combattete valerosamente per amor di Dio, et per la fede nostra et nostre robe et figlioli.
Et ancor mi vi ricomando con li miei figlioli et a mia molgera io l'o mandata et mi ricomandate a le mie sorele et a miei cugnati et parenti et amici, et mi ricomandate a mio socero messer Giorgio Barla, et a tutti li suoi di casa.
Et il figlio di Bastian Cergo se ricomanda bene a sua madre et a suo barba Berto Filipi et che non si pigliano fastidio di ricattarlo che tiene speranza in io che lo debia aiutar.
Et Filipo Nivoron se ricomanda a sua molgera et a li suoi figlioli et parenti et amici. Simon Garibaldo se ricomanda a sua sorela et a suo cugnato Batista Filipo condam*... et lo prega che venda tutto il suo et che lo mandano a ricattar, et li da posanza che possano vendere ogni cosa et li prega che se nisun (qualcuno) li volesse impedir, che vada in Signoria che li darian un dicreto che possa vendere. Ne altro.

Da Algeri il dì 20 luglio 1564.

Et vedo ogni giorno questi nostri di Pompiana et li pregano che li vogliano ricattar afinche non debiano rinegar la fede. Il figlio di Simon del Cogno che sta in Fesa se mi dattano aviso che lo facio rischatar; il patron di mia figlia mi à promesso che lo farà portare in Algeri overo, se voro andar, mi mandarà con merchanti et tornar con merchanti.

Vostro bon cugnato

Giacomo Filipo condam* Antonio".

* intendi = copano; condam per quondam = "figlio del fu".

 
26-VI-1561: "Assalto a Castellaro" in Cronaca del Calvi

" Anno del Signore 1561, 26 giugno (era però il 28 giugno). Di buon mattino si avvicinò al nostro litite presso il capo San Siro la flotta turca, comandata dal pirata apostata calabrese Luzalino. Mentre essi erano vicini alla spiaggia, era presente Battista Arlotto, onesta persona di Riva di Taggia, che attese il loro sbarco. Ma appena vide che essi cominciavano a scendere, a gambe levate, si diresse di gran corsa a Taggia e informo di tutto quello che aveva visto i nostri che erano gia preparati. Tutti, avendo gia ciascuno un posto prestabilito, si schierarono coraggiosamente per la difesa della patria. Giunsero intanto i nemici ordinatamente fino al luogo detto l'Anguilla e San Marino, e qui si trattennero un poco. Meta di essi si fermo, l'altra parte invece si diresse verso il ponte, e mentre qui indugiava, Antonio Berruto, comandante della rocca detta della Beata Vergine, che sorgeva dove ora e il convento dei Cappuccini, con un colpo di cannone ne ferì alquanti. Subito essi retrocedettero lungo la via che conduce a Castellaro. L'altra parte che era presso la chiesa di San Martino sal' verso il monte dalla medesima via e con giuntisi tutti, devastarono le difese di Castellaro, prendendo pochi prigionieri perché quasi tutti erano fuggiti.
I Turchi, proseguendo la salita sui monti fino alla cappella di San Salvatore, raggiunsero Pietra Bruna, Boscomare e distrussero e bruciarono tutti gli altri paesi. Fornivano aiuto e guida per tutti questi disastri alcuni "pessimi" dei nostri, che fatti prigionieri da quei barbari, avevano rinnegata la fede cattolica. I tre loro capi si chiamavano: uno Marco di Civezza, il secondo di Riva di Taggia era detto il Gonnella, il terzo di Pompeiana era detto Nasomozzo (o Naso marcio). Essi non miravano ad altro che alla rovina della loro patria, ma tutti miseramente perirono. Accadde anche un caso degno di memoria: mentre devastavano Cipressa, il rettore di quel popolo, un devoto sacerdote di nome Pietro Bosco, vedendo i suoi parrocchiani che da liberi erano condotti in schiavitù, come un secondo Eliseo ed Ezechiele, profeti di Dio, li seguiva invisibile in mezzo ai nemici ".


26-VI-1561: "Assalto a Castellaro" in "Relazione del Podestà di Taggia"

"Ill.mi e molto Magnifici Signori Ossequentissimi

Questa notte fra le tre e le quattro hore sono comparse in mare sopra del nostro cavo vaxeli turcheschi da XVII in XVIII e vi sono state temporeggiando sino a l'harba; e poi si sono retirati sopra il nostro fiume in terra et hano sbarcato la fantaria la qualle, in stollo grande, è venuta per via del nostro fiume alla volta della terra per dar l'asalto; ritrovandoci noi benissimo in arme et con bona diligentia et animo, se siamo posti a le defesse et havendoli monstrato la fronte valorosamente et salutandoli con artegliaria si sono subito riterati et rivorti per detta via del nostro fiume al Castellaro, luogo del Magnifico signor Iacopo Maria Spinola, vicino a noi da un miglio in circa; nel qual luogo hano fatto preiza di persone e robe, ma per esser la cosa in fatto non potemo sapere lo numero precisso de persone, dubitiamo però che il numero non sia grande e maxime di done e puti. Con meglior comodita si darà raguaglio più minutamente a Vostre Signorie Illustrissime alle quali humilmente me racomando che Idio le conserve felici.
Da Taggia a dì XXVIII di giunio del 561

Di Vostre Signorie Ill.me humile servitore

Ioanni de Marino podestà".


Presso l'Archivio di Stato di Genova (Sala Senarega, n.410) Nilo Calvini ha individuato una lettera ufficiale del Podestà di Sanremo Luca Spinola che ragguagliava la Signoria del pericolo occorso dalla podesteria per effetto di un assalto di pirati turcheschi.
La missiva dice:"Illustrissimo Signor Duce e magnifici Signori Governatori, so, dico qualmenti questa notte passata, a le 5 hore, capitò qui 9 galeote le quali si accostarono alla spiaggia e calorno gente in terra e puoi all'alba ne capitò altre 6 le quali medemamente calorno gente e ne deteno asalto grandissimo per doe volte a li quali, mediante l'iuto di Nostro Signore, havemo dato buona risposta combattendo per spacio di 8 ore. E se ne sono morti parecchi. Puoi si sono imbarcati e per quello che puosso giudicare hano preso parecchie done e puti per queste vile. Non si è potuto far altro essendo qui puocca gente, ché sono fuora. Pregiamo Vostre Signorie Illustrissime si contentino mandarne qualche provviste, cioè di polvere, sarte da balestra e corda d'archibuggi e piombo facendolene puoi, passate le furie, pagar ogni cosa, non prima. A Vostre Signorie Illustrissime quanto puoso mi racomando e priego mi dieno posanza da puoter comandare l'ordinar le ville vicine ne dieno soccorso e aiuto bisognando; e così comandar qui sotto gravi pene perché sono puocco ubbidienti. Nostro Signor Iddio a Vostre Signorie Illustrissime presti longa felicità e a noi doni vittoria. Da San Remo a li VII d'agosto a hore 15 del XLIII/ Luca Spinola".
In effetti la tradizione sostiene che i barbareschi, non riuscendo ad aver ragione della città, si diressero nella VALLE DI VEREZZO (trovando naturalmente meno resistenza, di modo che poterono rapire donne e bambini) e vi fecero razzie finché non furono raggiunti dal podestà Luca Spinola che, nello scontro alla PARA' presso Verezzo avrebbe avuto la meglio su di loro sin a costringerli alla ritirata.

[Nella narrazione dell'anno 1564, in merito all'assalto dei Barbareschi a Taggia, nella sua Cronaca, il Padre Calvi scrive:]
"Poiché questo anno fu denso di sventure per il nostro convento a causa dell'arrivo dei pirati, ho stimato opportuno narrare quanto ho spesso sentito raccontare da mio padre Sebastiano Calvo che era presente a quell'epoca e combattè (io ero ancora un bambino) e ho inserito qui brevemente anche quanto raccontavano altri uomini degni di fede. Le cose dunque andarono cosi .
Tre nefandi uomini meditavano l'estrema rovina delle nostre terre e con l'aiuto di altri malvagi convinsero Luzzalino capo delle galee africane di venire, con il maggior numero possibile di navi, a depredare le nostre popolazioni, che secondo loro erano molto ricche, indifese, di facile conquista. Quel rinnegato diede loro ascolto e radunato un gran numero di Arabi con circa 20 galee e l' aiuto di eretici francesi, approdò più volte a questi mari con grande paura dei nostri abitanti.
diressero verso il nostro convento che i monaci fuggendo avevano lasciato aperto. Subito i Turchi non osarono entrare pensando che vi fosse un tranello; dopo aver atteso un po' tentarono di entrare dalla parte del giardino e ruppero l'inferriata. Alla fine entrarono nel nostro convento e portarono via tutti i letti, lenzuola e tovaglie, sia di lana, sia di lino. Non il secchio e le conche perché il terziario fra Antonio li aveva gettati nella cisterna. Portarono via il pane, il vino, la farina e tutti i commestibili.
Dalla biblioteca rubarono la Somma di S. Tomaso; rovinarono alcuni codici di libri di leggi, altri ii portarono via: da ciò si capisce che insieme ai Maomettani che non conoscevano quei libri c'erano anche dei Francesi assai dotti, che compirono quelle malefatte. Non salirono sul campanile perché di là non portarono via nulla.
Dalla chiesa invece rapirono ciò che ritennero utile, cioè i libri corali che, come ho già detto, ora sono a Tolone; lasciarono l'Antifonario dell'Avvento perché allora non era ancora finito ed era sulle tribune del coro. Rubarono tutte le campanelle, fracassarono gli altari, anche quello dei santi martiri Lorenzo, Sebastiano e Stefano, costruito in laterizi, ma dorato e finemente decorato; bruciarono il pulpito; rovinarono con la scure un crocifisso nella faccia, petto e mani, come si può ancora vedere sebbene sia stato riparato. Ruppero e asportarono le canne dell'organo fabbricato da poco; spaccarono il tabernacolo costruito in bianchissimo e lucidissimo marmo; come pure con pari empietà le pile per l'acqua bendetta, fatte con il medesimo marmo, e le lapidi dove erano ricordati Andrea de Bonifaciis per la cappella di S. Vincenzo, di Luca Roggero per la cappella di S. Maria Maddalena delle quali lapidi ricordo di aver visto i frammenti.
Si scagliarono anche contro l'altare del SS. Rosario che era circondato da colonne di marmo bianco, e le ruppero con la solita furia, e le ridussero a pezzi. Ritornata la calma tutto fu riparato dai frati e con le elemosine; qualcosa subito, altre cose non molto tempo dopo.
Uccisero anche un maiale e lo collocarono in mezzo alla chiesa, come un cadavere umano, in derisione delle cerimonie religiose.
Il doge e i governatori della nostra repubblica avvertivano che il pericolo era grandissimo quando la potente flotta si faceva vedere. Il podestà e gli Anziani e le autorità diedero ordine che le cose più belle e preziose della nostra chiesa fossero trasferite in città per non essere facile preda dei nemici; come anche le scale e il legname che poteva essere utile ai nemici per l'assalto alla città.
In molti luoghi [annota ancora nella sua Cronaca il Padre Calvi trattando dell'assalto dei Barbareschi a Taggia] furono collocate le sentinelle e fu fatto tutto il possibile per la difesa della città. Il 10 giugno quella potente flotta si presentò ai nostri, e nella località detta l'Arma, dove è quasi un porto, sbarcarono sulla spiaggia un grosso gruppo di loro armati, in località dove non potevano essere visti dai nostri e dove stettero nascosti. Le galee invece finsero di navigare verso l'alto mare e di allontanarsi. Invece al mattino del giorno 11 comparvero di nuovo e sbarcarono altri uomini in località La Ciappa, i quali si riunirono a quelli lasciati nella notte nei nascondigli. Tutti insieme diressero verso il nostro convento che i monaci fuggendo avevano lasciato aperto. Subito i Turchi non osarono entrare pensando che vi fosse un tranello; dopo aver atteso un po' tentarono di entrare dalla parte del giardino e ruppero l'inferriata. Alla fine entrarono nel nostro convento e portarono via tutti i letti, lenzuola e tovaglie, sia di lana, sia di lino. Non il secchio e le conche perché il terziario fra Antonio li aveva gettati nella cisterna. Portarono via il pane, il vino, la farina e tutti i commestibili.
Dalla biblioteca rubarono la Somma di S. Tomaso; rovinarono alcuni codici di libri di leggi, altri ii portarono via: da ciò si capisce che insieme ai Maomettani che non conoscevano quei libri c'erano anche dei Francesi assai dotti, che compirono quelle malefatte. Non salirono sul campanile perché di là non portarono via nulla.
Dalla chiesa invece rapirono ciò che ritennero utile, cioè i libri corali che, come ho già detto, ora sono a Tolone; lasciarono l'Antifonario dell'Avvento perché allora non era ancora finito ed era sulle tribune del coro. Rubarono tutte le campanelle, fracassarono gli altari, anche quello dei santi martiri Lorenzo, Sebastiano e Stefano, costruito in laterizi, ma dorato e finemente decorato; bruciarono il pulpito; rovinarono con la scure un crocifisso nella faccia, petto e mani, come si può ancora vedere sebbene sia stato riparato. Ruppero e asportarono le canne dell'organo fabbricato da poco; spaccarono il tabernacolo costruito in bianchissimo e lucidissimo marmo; come pure con pari empietà le pile per l'acqua bendetta, fatte con il medesimo marmo, e le lapidi dove erano ricordati Andrea de Bonifaciis per la cappella di S. Vincenzo, di Luca Roggero per la cappella di S. Maria Maddalena delle quali lapidi ricordo di aver visto i frammenti.
Si scagliarono anche contro l'altare del SS. Rosario che era circondato da colonne di marmo bianco, e le ruppero con la solita furia, e le ridussero a pezzi. Ritornata la calma tutto fu riparato dai frati e con le elemosine; qualcosa subito, altre cose non molto tempo dopo.
Uccisero anche un maiale e lo collocarono in mezzo alla chiesa, come un cadavere umano, in derisione delle cerimonie religiose.
Che dire poi degli oggetti lasciati dai frati in chiesa o in sacrestia per l'uso quotidiano? Non lasciarono assolutamente nulla: rubarono le cose a loro utili, ruppero, calpestarono, annientarono le inutili.
Della rovina di questa povera casa (cioè del convento di S. Domenico) ho detto abbastanza. Ora parliamo della città.
I nemici si piazzarono nelle località dette La Croce, il Chiazzo e Fascia Longa dilagando dappertutto come cavallette. Con frecce e schioppi di cui erano bene armati e pratici tentarono cacciar via i nostri dalle mura e dai bastioni. Ad un certo Antonio Oliverio, figlio di Ludovico, uomo di alta statura, portaron via dal capo il berretto rosso con una freccia. Dalla fortezza presso il nostro convento, con grandinata di frecce e colpi di schioppo quasi cacciaron via i nostri soldati, tirando dal monte superiore in altezza a quel vicino bastione.
Allora il nobile Pietro Curio, capitano di quel bastione corse subito ai ripari: comandò di sistemare nei punti più elevati dei materassi di lana, dentro i quali si conficcarono le palle senza danno dei nostri soldati.
Accadde anche che un turco mentre cercava di abbattere la croce di legno piantata sulla strada che conduce al nostro convento, fu ucciso da una palla sparatagli con un fucile dalla rocca inferiore, presso il fiume. La stessa cosa successe nella rocca superiore; infatti quando un nostro combattente, detto Battolo Roggero, figlio di Nicola, vide un turco che con grandi colpi tentava di spaccare le porte della torre che è in Fascia Longa (anticamente chiamata dei Bosio) egli con un suo archibugio che aveva una canna lunga sette palmi, lo colpì e lo getto a terra giù dalla scala; e difatti poi trovarono il muro sporco di sangue, soprattutto dove era caduto dopo la ferita.
I nostri dunque con armi da fuoco sparate dalle fortezze dette del Convento, della Biscia, dalla rocca superiore e dalle mura fecero sì che i nemici, dopo circa sei o sette ore di combattimento, ritornassero alle loro galee. Essi persero in morti e feriti molto di più di quanto avevano guadagnato nella depredazione del nostro convento.
Molti dei loro infatti morirono sebbene abbiano portato via i loro cadaveri e li abbiano sepolti in luoghi segreti. Del nostri solo uno fu ferito ad una gamba, trafitto da una freccia, mentre, troppo curioso di vedere i Mori, si era scoperto, offrendosi alla vista dei nemici. Fu ferito ma guarì.
Dopo la loro partenza furono trovate molte macchie di sangue in particolar modo sul muro del nostro oliveto dove un nemico stava seduto e poteva esser visto dalla vicina rocca; di là Vincenzo Cappone figlio di Domenico, detto Stanga, lo buttò giù; là si trovò il muro sporco di sangue e il suolo inzuppato.
Vi è una casa di campagna, nel luogo detto Colletto, ora con vigna posseduta da Giovanni Battista Reghezza figlio di Lorenzo, nella quale i nostri trovarono gran quantità di scudi e stracci sporchi di sangue: i nostri pensarono che i Turchi avessero là trasportato e medicato i feriti.
I Mori dunque scrutarono da lontano ma attentamente il ripido monte, la valle profonda, e le mura ben fortificate e rinunziarono a tentare la scalata sebbene avessero portato molte scale per l'espugnazione della città".

[Continuando nella narrazione dell'anno 1564, in merito all'assalto dei Barbareschi nella sua Cronaca il Padre Calvi offre importanti considerazioni non soltanto sullo schieramento dei difensori di Taggia (tra cui dimentica solo Raffaello da Cremona, capitano mandato da Genova per sottolineare i cui meriti gli Anziani del Comune di Taggia gli rilasciarono una "Lettera lodevole di congedo", tuttora custodita all'Archivio di Stato di Genova in "Sala Senarega", n. 472) ma contestualmente anche sulla CINTA MURARIA e sul SISTEMA DI FORTIFICAZIONI a disposizione di questi stessi combattenti]:
" Prima di terminare il racconto di questa battaglia stimo opportuno riferire i nomi di coloro che con incoraggiamenti, consigli, e con le armi hanno difeso la patria.
Avrei voluto ricordare tutti, affinché di tutti restasse un doveroso ricordo ma chiedo scusa se ho tralasciato qualcuno; ho però ricercato con cura e come meglio ho potuto di indagare su tutto affinché non si perdesse la memoria di sì grandi uomini.
Per primo l'illustrissimo Giovan Battista Aneto, cittadino di Genova, podestà di questa città, a nome del Senato genovese.
Tra i sacerdoti secolari ricordiamo: il canonico Marco Bergonzo, il canonico Giovanni Arnaldo, i reverendi Michele Pastorello, Bernardo Gandolfo, Nicola Rocca Bigliera curato, Bernardo Gastaldo, Guglielmo della Volta, Bernardo Barla, Vincenzo della Volta e Francesco Martino.
Tra i chierici: Andrea Ferrario, Pietro Ardizone, Giovanni Anfosso, Antonio Vivaldo, i quali tutti poi divennero sacerdoti; e Giovanni Anfosso che ancora vive.
Del nostro convento: reverendo padre priore Ludovico de Revello del marchesato di Saluzzo, Serafino Trencherio di Dolcedo vicepriore, Pietro Curio lettore, Marco da Briga scrittore di libri corali, Gerolamo da Garessio, Domenico Sappia di Sanremo, Benedetto Panizza di Badalucco lettore del convento, Gerolamo di Riva di Taggia, Clemente Rosso, Vincenzo da Triora. Chierici e novizi: Giacomo da Dolcedo, Giovanni Pelizia, Vincenzo Roggero, Domenico Curlo e Giovanni Battista Arnaldo.
Conversi e terziarii: Costante e Dionisio da Triora, Giacomo e Filippo conversi, e Antonio tutti e tre da Badalucco, Tommaso Ardizone terziario.
Questi sono i nomi di coloro che ho potuto raccogliere: se ritroverò qualche altro degno di essere ricordato lo aggiungerò affinché nessuno sia privato dell'onore dovuto.
I più importanti laici e aiutanti per consiglio e mezzi furono i seguenti: illustrissimo Battista Aneto podestà genovese; gli Anziani Vincenzo Ardizone dottore in medicina, Cosma Fiormaggio dottore in medicina, Gregorio Ardizone dottore in medicina, Giovan Battista Curlo fu Pietro dottore in legge, Sebastiano Pastorello dottore in legge, Giovanni Antonio Madio dottore in legge, Francesco Novaro dottore in legge, capitano Giuliano Vivaldo fu Enrico, comandante del presidio della piazza, Vincenzo Bergonzio collega del citato Giuliano; Giovanni Ardizone fu Benedetto, Fabiano Asdente fu Domenico, Michele Visconte, Giovanni Ardizone fu Tommaso, Benedetto Littardo, Nicola Gastaldo, i fratelli Vincenzo e Ludovico Vivaldo, Vincenzo, Francesco e Bonifacio Pasqua, Vincenzo Arnaldo, Francesco Arnaldo, Vincenzo e Francesco Reghezza, Nicola Calvo fu Angelo, Sebastiano Oddo, Vincenzo Cappone, Bartolomeo Baccino droghiere, Benedetto Ardizone.
I Capitani e i combattenti e gli altri inservienti (a guardia delle FORTIFICAZIONI DI TAGGIA parzialmente leggibili in questa STAMPA) furono: Antonio Lombardo, Pietro Curlo, comandante del BASTIONE che è proprio vicino al nostro convento, Antonio Cappello comandante della FORTEZZA presso la via della Biscia, Benedetto Priore comandante presso la fortezza superiore vicino alla sua casa, il capitano Antonio Berruto che comandava la fortezza chiamata della Beata Vergine dove è il convento dei Padri Cappuccini, Pietro Giovanni Rosso notaio comandante della FORTEZZA DELLA SS. TRINITA' vicino a casa sua della quale era vicario Domenico Reghezza detto il Mozzo, che è ancora vivo, Benedetto Anfosso Formica comandante della ROCCA detta Al Gombo, Benedetto Violetta combattente alla ROCCA dove termina l'acquedotto distrutto verso i mulini, Francesco Bianco combattente alla FORTEZZA detta Calegaria presso il fiume.
I comandanti e custodi delle PORTE: alla PORTA DELL'ORSO v'era il comandante Antonio Arnaldo fu Bartolomeo, con lui suo fratello Pietro Giovanni, Battista Brizio fu Pietro, Francesco Pastorello, Onorato Novaro, Giovanni Calvo.
Alla PORTA DEL PRETORIO: Vincenzo Bianco e suo fratello Bartolomeo, Pietrino Pasqua, Francesco Revello, Giovanni Revello, Vincenzo Visconte. Alla PORTA INFERIORE DI S. LUCIA: Ludovico Pastorello chirurgo, Giovanni Vivaldo, Paolo Vivaldo, i fratelli Battista e Giacomo Vivaldo solitamente detti Fornerii.
Alla PORTA SUPERIORE DI S. LUCIA:: comandante Michele Priore, Sebastiano Calvo mio padre, Francesco e Giovanni e Vincenzo Pastorello, Paolo Roggero e suo fratello Antonio figli di Nicola.
Alla PORTA DI BARBARASA: presso la fontana: Vincenzo Roggero e altri della sua famiglia.
Alla PORTA BEATA VERGINE IN CANNETO: Pietro Brizio, Bartolomeo Martino, Vincenzo Crespo, Vincenzo Vivaldo, Giovanni Rosso, Lorenzo Lancia, Alberto Sasso.
Alla PORTA CHE CONDUCE A CASTELLARO: Battista Reghezza, Vincenzo Reghezza e Costantino suo fratello, Antonio Calegario, Battista Vivaldo Madala, Giovanni Anfosso detto il Manzo.
Alla PORTA CALLEGARIA presso il flume vi era comandante Lazzaro Callegari e suo fratello Pietro Luigi, Gerolamo Revello, Vincenzo Revello Bacciola, i fratelli Galeotto e Antonio Bosio, e molti altri che erano vicini alla propria casa.
Nella PIAZZA GRANDEa l comando di dodici caporali vi erano trecento soldati pronti a tutti i casi; e affinché il loro ricordo non scompaia ho deciso di ricordare qui i nomi di coloro che ho potuto rintracciare per non privarli dell'onore che meritano soprattutto percheého constatato che furono tutti uomini illustri e degni di ogni onore; Vincenzo Tirocco signifero, Benedetto Orengo e Giacomo Pignasco tamburino, Luigi Marino con i suoi figli Pietro e Giovanni, Domenico Cappono detto Stanga e i suoi figli Battista e Vincenzo, Vincenzo Revello con i suoi figli Tabiasco e Sebastiano, Battista Baccino, Pietro Giovanni Orengo droghiere, Antonio Colombino, Francesco Oggerio Muto, Sebastiano Reghezza con i suoi quattro figli Bartolomeo, Battista, Giacomo e Pietro, Giovan Luigi Oliverio con i suoi figli Giovanni, Antonio, Vincenzo e Bernardo, Antonio Rolando stagnino, Antonio Rolando notaio, Battistino Vivaldo detto Giacheto, Antonio Bertarello con suo figlio Giovanni, Antonio e Lazzaro Bertarello fratelli, Pietro Giovanni Bertarello, Bonifacio Anfosso arciere, con suo figlio Antonio che ancora vive, entrambi di piccola statura ma di forte animo, Domenico Cappone lanaiolo, Vincenzo Anfosso Casella con i suoi figli Giovanni, Battista, Angelo e Ludovico, Simone Reghezza detto Oste, Giovanni Reghezza detto il Mozzo con i figli Domenico e Giacomo; Antonio, Filippo, Domenico, Giorgio e Nicola Boero, Vincenzo Cagnazio, Vincenzo Anfosso, con i suoi figli Lorenzo, Teramo e Bartolomeo, Giovanni Arnaldo fu Vincenzo, Giacomo Bilio e Giuliano suo fratello, Andrea Luca e Giacomo Vivaldo Malizia, Antonio, Francesco, Vincenzo Costanzo Della Volta, Bartolomeo, Bacino, Ludovico Ferraro, Gregorio, Bartolomeo figli, Andrea, Nicola e Giacomo de Ferrari, Vincenzo Garino, Vincenzo Tardivo, Giorgio Tardivo, Vincenzo Ardizone con tre figli, Pietro Ardizone, Battista, Giacomo Bertono, Giovanni e molti degli Anfosso.
Della devastazione del convento fu informato il reverendo padre provinciale il quale fece trasferire altrove i novizi; li accompagno il rev. p. Clemente Rosso.
Tutto il popolo specialmente i nobili e i più ricchi, dolenti per tante disgrazie, provvidero alle angustie dei frati.
Frattanto il p. priore Lodovico Revello esortava in ogni modo i Tabiesi a edificare un FORTE che servisse a tenere lontani i barbari. Molto fu discusso su tale argomento, ma egli un giorno presa una croce si portò processionalmente coi frati nella regione detta Arma e scelto un luogo posto sopra la grotta, dov'è l'oratorio della SS. Annunziata, cominciò a portare sulle spalle dalla vicina spiaggia i sassi per la costruzione della rocca. L'esempio fu imitato da tutti, uomini e donne, senza distinzione di classe, e quel fortino fu mandato a compimento, come ancor oggi lo vediamo per nostra tranquillità.
Tra gli abitanti di Bussana e quei di Taggia sorse per tal fatto una lite, perché quelli dicevano che il fortilizio era costruito sul loro territorio; ma il serenissimo Senato giudicò che questa fortezza si doveva fare in quel luogo, che era il più opportuno sia perché posto sopra un promontorio e protetto da numerose scogliere, sia perché impediva ai pirati di fare approdare le loro triremi nel sottostante luogo che e quasi un porto naturale. Solo deliberò che avuto riguardo alle ragioni del popolo di Bussana, questo doveva pagare la quarta parte della spesa della costruzione.
Scavando per la nuova fortezza si trovò nelle fondamenta di antiche rovine la seguente iscrizione scolpita su bianco marmo reso però rossiccio per il contatto della terra:
All'eterna vittoria dell'invitto Glove Ottimo e Massimo;
Marco Valerio Caminate, restauratore del castello.
Autoicus .
Questa lapide fu posta sopra la porta del nuovo fortino insieme a un'altra, alquanto maggiore di dimensioni, del seguente tenore: I Tabiesi oppressi da frequenti incursioni dei Turchi, per avere, se stessi e i posteri, una sede più sicura, costruirono questa fortezza dedicata alla SS. Annunziata, e vi aggiunsero una lapide molto antica, il 25 marzo del 1565. 


da Cultura-Barocca