venerdì 31 maggio 2019

Un processo del 1572 per incendio doloso di un bosco comune

In collina tra San Biagio della Cima (IM) e Soldano

Boschi comuni, comunaglie, legnami erano un patrimonio pubblico tutelato ma con forze non sempre adeguate specie contro gli Incendi dolosi. Nel "Capitanato di Ventimiglia" nel 1572 si tenne, ad esempio, un processo contro un certo Giovanni Maccario, poi condannato, figlio di Nicolò reo d'aver dato fuoco ad un "bosco comune" (ora detto di Passal'orio, ora di Passalovo, ora di Passalupo) per inglobarne, acquistando poi dal fisco a prezzo ridottissimo i terreni arsi e inutili, gran parte nelle proprietà paterne.






Airole (IM)
Trascrizione documentaria dalla Storia della Magnifica Comunità degli Otto Luoghi (1986) di Bartolomeo Durante e Ferruccio Poggi)

 da Cultura-Barocca



sabato 25 maggio 2019

Quelle trote del Roia

Ventimiglia (IM), oggi
Aprosio cerca di rivalutare, contro una vetusta opinione pubblica ed erudita, la nomea di Ventimiglia ritenuta città insalubre oltre che provinciale, nomea aggravata dal fatto che per le tracimazioni di Roia/Roya e Nervia la malaria è assai diffusa tanto che i benestanti specie in estate preferiscono lasciare la città per ritirarsi nei loro possedimenti della frazione di Latte, certamente dall'habitat migliore 

Ciò gli riesce difficile pur come si dice "arrampicandosi sugli specchi" dacché troppi hanno criticato il clima della città sì che lui stesso iniziandone la descrizione deve rifarsi ad un luogo comune scrivendo "[Ventimiglia] Giace sù la falda d'un promontorio imboccata dal vento Siloco, od Euro, il quale venendo a morire in essa, impedito daa monti vicini di passar'oltre, cagiona, che i di lei Cittadini godano aria poco salubre: cosa comune a più d'un luogo della Riviera. Non è però così cattiva, quanto altri se la figurano, e si predica da molti che pure la videro dalla lontana. Non si può negare che molti de' forastieri che ci vengono ad habitare, ci ritrovino la Sepoltura: mà sono di quelli che non si vogliono ricordare ddell'insegnamento del Savio nel Predicatore Cap. VII,. 18. Noli esse stultus, ne moriaris in tempore non tuo, facendo disordini nel mangiare e nel bere che ammazzerebbero un cavallo". 

Con un procedimento chiaramente erudito e funambolico, attribuendo le morti agli eccessi esistenziali, non può evitare di menzionare il vescovo Promontorio che giunto a reggere la Diocesi si ammalò gravemente dopo quattro anni, essendo però cagionevole di salute e comunque riuscendo a riprendersi conducendo vita sana e con grande riguardo (p. 30) ed anziché proporre immagini ambientali buone di Ventimiglia preferisce anteporle Albenga da lui reputata città decisamente più malsana (p. 32) (e risultando Albenga danneggiata dallo sfruttamento del Centa per la canapicoltura non nega che tale coltura, causa di inquinamenti, non avvenga anche in area intemelia seppur creando assai meno danni, pur se cita soprattutto la carenza di igiene pubblica (quinta riga dal basso di pag. 37 e prime sette righe di pag. 38) dimostrando di avere coraggio e personalità nell'attaccare pubblicamente i potenti sì da scrivere "[Ma] a quello potrebbero porger rimedio li Capitani, li Commissari, o Governatori, che si appellino: o li Sindici, o siano Consoli della Città, e lo farebbero, se fussero così zelanti del publico, quanto del proprio interesse: Ma mi perdonino se non l'intendono. E che forse nel comune non c'entra l'interesse particolare? (p. 58)". Si appiglia quindi alla gastronomia intemelia citandone la qualità dei vini e la squisitezza delle trote (p. 39) negando, cosa da qualcuno suggerita, la presenza di tormentose nebbie sulla città (pag. 41).
 

Retoricamente il discorso potrebbe anche reggere, specie a fronte di lettori lontani, ma Aprosio dal carattere spesso fumino e controverso cade, forse per qualche imprevisto (previsto?) scontro caratteriale con i dotti locali, in una trappola da lui stesso formulata e che contraddice in parte le cose prima sostenute con tanta fatica = e tutto ciò aviene, a scapito di Ventimiglia, quando scrive = "...e [dei poeti e letterati viventi]ci è un sol giovanetto Pauolo Agostino, figliuolo di Pauolo Girolamo Orengo, e della fù Anna Maria Galeani, di buon marito ottima moglie, il quale non lassa d'esser favorito dalle muse: e se attenderà (però lontano dalla Patria [Ventimiglia], che sottoposto a Cielo d'aria grossa, non gli può somministrare spiriti sottili) sarà il primo poeta della contrada" (pag. 258, riga 4 dal basso)

Le distinte e contrastanti postulazioni aprosiane sembrerebbero una sfasatura del procedere retorico in forza anche del suo carattere ondivago e del resto proprio di tanti eruditi del suo contesto epocale. Ma le cose non stanno solo così e per intenderne la sostanza basta leggere, con discernimento, questa sua lettera al grande Leone Allacci (III colonna dell'articolo) ove si legge "Io me la passo abbastanza bene ed ingrasso nelle fatiche poiché tosto alzatomi da letto, dico messa e poi mi confino in libreria, nelle ore slitamente del coro e del mangiare da quella partendo"

Il fiume Roia/Roya è in definitiva, a livello di decifrazione del messaggio, la macchina naturale che riproduce nella fisicità le discriminazioni sociali, cui il frate, come altri intellettuali del suo tempo, aspira per evitare come suggerito da alcuni di parere esser caduto in una sorta di punitivo esilio in grado di escluderlo dalle relazioni proficue con i contesti sapienzali cosa che si evince, pur pallidamente da questo altro stralcio di lettera di Jacopo Lapi (colonna III). Il fiume, nel meccanismo erudito aprosiano, esclude la Ventimiglia storica, coi suoi problemi e la sua confusione umana dalla ventimiglia ideale, il luogo ameno, inattaccabile dalle brutture del tempo, al cui centro magico sorge il convento, pia e fortificata protezione per la preziosa biblioteca e per il suo dotto artefice in grado, da solo o con pochi eletti, di praticarvi in piena tranquillità l'ambito otium negotiosum.



lunedì 29 aprile 2019

La fondazione a Vallecrosia (IM) dell'Istituto di Sant'Anna

Istituto di Sant'Anna di Vallecrosia (IM) ai primi del 1900






da I "graffiti" della storia: "Vallecrosia e il suo retroterra", di Bartolomeo Durante, Ferruccio Poggi, Erio Tripodi, edizioni erio's, 1984 in Cultura-Barocca



lunedì 15 aprile 2019

La fondazione, o rifondazione, di Bordighera


Il 2 settembre 1470 (notaio Antonio Corrubeo) alcuni capifamiglia (in gran parte di Borghetto e Vallebona), col consenso dello Stato, radunatisi nella parrocchiale di Borghetto, non realizzarono una vera e propria "fondazione" di Bordighera ma una solenne "rifondazione" in VIII "villa" intemelia, erigendo strutture insediative su un'area, al momento deserta ma in cui stavano ruderi di un passato neppure remoto e dove era già esistito un insediamento censito nel focatico provenzale del 1300. Le difficoltà per chiarire ciò furono dovute alla perdita dell'atto originario ed alla necessità di ricostruirlo con documenti di seconda mano.
B. Durante e F. Poggi hanno individuato nell'"Archivio di Stato di Genova" ("Magistrato delle Comunità" n.858) una seicentesca trascrizione dell' originale ad opera del notaio M. Antonio Lamberto (si rinvenne pure un atto, come quello del Lamberto, trascritto il 6-VIII-1708 dal notaio G. Maria Bellomo che consultò l'originale ora perso): B. DURANTE-F. POGGI, Nuovi documenti sulle origini e la storia di Bordighera in "Rivista Ing.Intem.", 1983, n.3-4).
Data la correttezza pubblica e legale delle trascrizioni notarili si può proporre l'atto del Lamberto (che parla di 32 e non di 31 fondatori di Bordighera) come atto probante l'erezione ufficiale della villa di Bordighera:
"In nome del Signore Amen. Resti ben noto a tutti quanti, sia come singoli individui sia al pari di gruppo e collettività, ed a quanti peraltro avranno occasione di leggere od ascoltare il contenuto del suddetto documento che ai seguenti impegni, accordi e stipulazioni sono concorsi i seguenti capifamiglia:
Lazarus Taronus, Antonius Conradus, Siretus Vialis, Lucas Rubeus, Antonius Rubeus q.
[figlio del fu] Bartolomei, Joannes Paranca [figlio di] Georgii, Guliermus Carbonus, Franciscus Ricobonus, Petrus Ricobonus, Georgius de Plana, Nicolaus de Plana, Petrus Jancherius q.[figlio del fu] Francisci, Bertinus Jancherius, Vicentius Bandetus, Monetus Parancha, Ludovicus Jancherius q.[figlio del fu] Francisci, Bartholomeus Traytellus, Ludovicus Balucus, Cristophorus Cataneus, Stephanus Lucas [figlio di] Massimini, Antonius Rubeus [figlio di] Oberti, Joannes Conradus [figlio di] Antonij, Joannes Rubeus [figlio del fu] Andreae, Leonardus Ardissonus, Guliermus Bandetus, Guliermus Conradus, Joannes Approsius [figlio del fu] Thelami, Bartholomeus Rolandus, Rainerius Paranca, Petrus Jancherius [figlio di] Pellegri, Petrus Jancherius [figlio di] Christophori e Antonius Taronus [per un totale di 32 capifamiglia fondatori].
Resti pertanto noto che i soprascritti si sono reciprocamenti fatta promessa d'edificare un luogo
[con "luogo" si indicava un centro minore] nel territorio di Ventimiglia nel sito detto "la Bordighea", procedendosi precisamente nei lavori dalla via pubblica verso mare e dalle proprietà degli eredi del defunto signor Barnaba Corrubeo canonico di Ventimiglia sin alla terre dei già menzionati Giorgio e Nicolò de Plana laddove sta "Lo Pozo" [il pozzo]; intorno a siffatto Pozo verrà quindi costruita una parete alta grossomodo venti palmi che rappresenterà la cinta del borgo: inoltre si edificheranno delle abitazioni prossime a questa cinta muraria ed altre ancora dovranno farsi in simile luogo per la lunghezza di ventotto palmi e la larghezza di venti. Le pareti di queste case, dell'altezza massima di dodici palmi, saranno quindi erette da questo momento entro i due prossimi anni a venire con spese comuni...redatto nella chiesa di S. Nicolò di Borghetto nell'anno del Signore 1470, indizione III, al giorno secondo del mese di settembre essendo presenti i testimon Petro Ganserra, Johanne Balauco q. [del fu] Antonio cittadini Ventimigliese e Johanne Grosso de Sancto Romulo chiamati e convocati a tutto ciò....Estratto in ogni sua parte da una consimile copia autentia ricavata dai protocolli dei documenti del defunto Signor notaro Antonio Corrubeo, copia peraltro sottoscritta dal fu Signor Giovanni Antonio Corrubeo figlio del defunto Antonio, di professione notaio in Ventimiglia.....Marco Antonio Lamberto notaro".

da Cultura-Barocca



sabato 6 aprile 2019

Taglie del XVI secolo su lupi ed orsi a Pigna (IM)


La COMUNITA' DI PIGNA (IM) in Alta Val Nervia nelle sue NORME STATUTARIE del XVI secolo introdusse una RUBRICA in cui si legge: "Orsi, Luppi grossi/ Che ogni persona che piglierà nel territorio del presente Luogo di Pigna et Busio, Orsi o Lupi grossi, a colui, a coloro che n'averanno preso gli sii sii dato e pagato dalla Città e Sindici Agenti per essa per ogni Orso o Lupo grosso libre due ducali [la moneta è sabauda visto che Pigna e territorio dipendevano dal Piemonte sabaudo] et se prenderà delli piccoli la Città gli pagherà una libra [lira] per ogni uno, et quelli gli haverano presi saranno tenuti mettere la testa et le grafie attaccate ad una delle porte della terra".

Per giustificare la taglia ricevuta, visto che venivano retribuiti con denaro fiscale, i cacciatori avrebbero dovuto appendere alle pubbliche porte della città la testa e gli artigli degli ANIMALI PREDATORI. Può sembrare un'usanza barbara, ma era necessaria per la salvaguardia della vita agreste. I motivi di preoccupazione non erano peraltro immotivati.


Dalla lettura del MANOSCRITTO BOREA si apprendono le vicende di VARIE E MORTALI AGGRESSIONI DI LUPI (per quanto la stesura del prezioso documento qui digitalizzato in analisi critica inizi nel 1470, tratti principalmente l'area di Sanremo/San Remo ed alcune considerazioni possano anche esser state talora enfatizzate nella narrazione popolare) nel Ponente ligustico in vari anni. Ad esempio 1532 - 1564 - 1637 - 1641 - 1643.

Le armi (reti, trappole, dardi) e il tipo di caccia (di agguato, di inganno e/o coi cani) fu successivamente integrata coll'uso delle armi da fuoco: si trattava però di ARCHIBUGI, usuali tra la popolazione solo da fine '500, armi cioè che non potevano certo compiere delle stragi.

Dal fatto che negli STATUTI DI PIGNA del '500 fosse stata introdotta questa rubrica si deduce che le colonie di ORSI nell'area in particolare di GOUTA dovessero essere notevoli e costituire, questo è fuor di dubbio, un pericolo per le greggi transumanti: è ipotizzabile che all'epoca storica dei PELLEGRINAGGI (XIII-XIV secolo) questi grandi animali fossero ancora più numerosi in zona che nel '500 e che finissero per costituire un pericolo reale per quei PELLEGRINI che procedessero da soli o si avventurassero troppo fuori dai percorsi naturalmente battuti.

da Cultura-Barocca



martedì 26 marzo 2019

Un piccolo, ma tormentato documento di antica democrazia rurale

Alle falde di Montenero
Della COMUNITA’ (fondata nel 1686) DEGLI OTTO LUOGHI (le “Ville” di Camporosso, Vallecrosia, San Biagio della Cima, Soldano, Vallebona, Bordighera, Borghetto San Nicolò e Sasso - le ultime due località, oggi frazioni di Bordighera - nel ponente dell'attuale provincia di Imperia), si ricordano - e sono in primis importanti da esaminare per lo straordinario bagaglio di informazioni che portano sulla REGOLAMENTAZIONE DELLA VITA SOCIO-ECONOMICA DI UNA SOCIETA’ AGRICOLA FRA XVII E XIX SECOLO - i CAPITOLI PER LA SALVAGUARDIA DEL MONTENERO [che era una COMUNAGLIA cioè un BOSCO COMUNE e quindi fiscale: le comunità se ne servivano come di un bene pubblico, ne vendevano il legname, ne gestivano la fruizione sempre a favore della comunità] ed ancora il REGOLAMENTO CAMPESTRE DEGLI OTTO LUOGHI.

Nella società rivierasca ponentina tra XV e XVIII sec., una società strettamente legata per vari scopi alla fruizione del legname e comunque alla salvaguardia delle coltivazioni, una cura particolare era data alla prevenzione degli INCENDI e alla lotta contro gli stessi, utilizzando ogni sistema, anche al trasporto dell’acqua su primordiali carri cisterna, efficaci pur se non all’avanguardia come la MACCHINA DI TRADIZIONE CENTROEUROPEA che fu elaborata in questo stesso periodo.
Le pene contro i PIROMANI erano peraltro molto severe come dettano le informazioni date in materia al BRACCIO SECOLARE e soprattutto il contenuto dell’ARTICOLO DEGLI STATUTI CRIMINALI DI GENOVA DEL 1556.

A seconda del dolo e delle conseguenze penali si poteva passare da una pur severa ammenda alla PENA DEL CARCERE alla ben più temuta condanna all’ESILIO -per cui si era proscritti dalla Stato e tornando nascostamente in patria si poteva essere lecitamente uccisi dai CACCIATORI DI TAGLIE - alla “PENA DELLA GALEA” venendo cioè “incatenati” come GALEOTTI - per un tempo bariabile di anni (da uno sin alla reclusione a vita) - sulle GALEE DI CATENA DELLO STATO.

Nulla toglie che in casi estremi si potesse comminare il SUPPLIZIO ESTREMO - nella Repubblica di GENOVA caratterizzato soprattutto, ma non solo, dall’IMPICCAGIONE LENTA -: un po’ per superstizione e tradizione culturale e parecchio per convenienza poliziesca e qual macchina di dissuasione - in quei particolari ma non frequenti “momenti storici” caratterizzati da un incrudelimento della giustizia o da qualche sporadico ritorno pseudoreligioso di “CACCIA ALLE STREGHE” - gli INCENDIARI correvano pure il rischio tremendo di esser inquadrati nel panorama dei CRIMINALI DEL PARANORMALE quali PERPETRATORI DI MALEFICIO INCENDIARIO.

Vista inoltre la crescente importanza commerciale, alimentare e sanitaria dell’AGRUMICOLTURA (dato che il clima favorevole agevolava la coltivazione di cedri, aranci e limoni) negli anni le Ville si dotarono anche di una normativa (o CAPITOLI) idonea a regolare sin nei minimi particolari la cultura degli agrumi e l’attività mercantile loro connessa che, via via, assunse per l’economia locale un ruolo importantissimo.

In base all’ATTO DI FONDAZIONE le Ville avrebbero costituito una Comunità, una sorta di “democratica confederazione”, la cui amministrazione (il cui fine doveva risiedere in un’oculata ed equanime distribuzione del gettito fiscale per le esigenze diverse delle diverse località) risiedeva nell’autorità di un PARLAMENTO composto di membri di provata onestà della Comunità stessa, con ampi poteri in materia economico-fiscale locale. Il PARLAMENTO non aveva peraltro una sede fissa ma si radunava, secondo un processo cronologico ben preciso di rotazione, nelle sedi delle ville principali, di modo che per consuetudini e carisma alla fine la villa sede dell’edificio del PARLAMENTO non potesse - come Ventimiglia - influenzare o variamente lusingare, corrompere od asservire i “parlamentari” meno decisi delle altre località.

Le PROCEDURE DI DIVISIONE si protrassero sin al 1696 e continuaronono nel XVIII sec. per proteste di Ventimiglia la cui situazione degradava a vantaggio delle ville: comunque, alla fine, si tracciarono nuove linee confinarie tra le amministrazioni, fissando pietre di limite a disegno cruciforme (quelle che Ugo Foscolo durante un suo soggiorno ventimigliese, lugubremente, interpretò essere delle tombe sparse sui monti): una prova dei cippi di confine degli “Otto Luoghi” si vede sul Monte Nero di Bordighera (le pietre portano da un lato la sigla 8L [Otto Luoghi] e dall’altra la sigla S [Seborga] e SR [Sanremo].

Le procedure di divisione si protrassero (soprattutto per la delineazione dei confini fra capoluogo e ville) sin al 1696 e continuarono nel XVIII secolo, specie per le proteste avanzate da Ventimiglia la cui situazione socio-economica andava degradando a vantaggio di quella delle ville che invece presero a fiorire. In particolare Bordighera, esente da obblighi fiscali connessi un tempo ai doveri sul “pescato” e sulla “marineria” verso Ventimiglia, migliorò la propria situazione socio-economica e risentì di incremento demografico.

Anche Camporosso risentì favorevolmente di questa nuova situazione, tuttavia i progressi di Bordighera (il cui porto traeva vantaggi dallo sfruttamento dei commerci oltre che dall’attività di pescatori e “coralatori”) si evidenziarono in maniera più evidente rispetto a quelli delle altre località (compresa la pur ricca Camporosso).

Le Ville meno fortunate, come Soldano e Sasso, presero a sospettare che Bordighera, mentre cresceva a dismisura, diventasse una novella Ventimiglia, una villa “matrigna” desiderosa di egemonizzare il Parlamento comunitario delle Ville.

Un momento di attrito tra gli otto borghi si verificò tra 1773 e 1787 quando si sparse la voce di “Incursioni dei Turchi” come si legge tuttora nell’Archivio Comunale di Bordighera, “Atti consulari 1759-1797. I Bordigotti ottennero da Genova che si sistemassero “Per la difesa dei bastimenti nazionali” due cannoni sul Capo della Ruota e due sul Capo S. Ampelio. I Vallecrosini in particolare (ma anche gli abitanti delle altre ville) avrebbero dovuto contribuire alle spese di mantenimento ma, non sentendosi protetti da quelle lontane batterie, si appellarono alla Repubblica per rifiutare un onere di spese che sarebbe andato, secondo loro, a vantaggio di Bordighera. Di fronte all’idea di una Bordighera assimilata al rango di “novella rapace Ventimiglia” si giunse a ventilare l’idea di una nuova separazione, che escludesse la “città delle palme” : molte furono le discussioni, le petizioni, gli scritti pubblicati o pronunciati nel Parlamento della Comunità. La situazione si fece incandescente ma i deputati delle Ville, che si apprestavano a darsi battaglia, furono arrestati sulla soglia di colossali trasformazioni che presto avrebbero trasformato la Francia e l’Europa tutta, quei fermenti rivoluzionari che avrebbero cancellato la Repubblica di Genova e le sue molteplici istituzioni, compreso il secolare “Capitanato di Ventimiglia”.

Così l’esperimento della “Magnifica Comunità degli Otto Luoghi”, durato come si vede poco più di un secolo finì coll’istituzione della “Rivoluzionaria Repubblica Ligure del 1797” , restando tuttavia nella memoria di tutti come un piccolo, tormentato, ma importante documento di antica democrazia rurale.

da Cultura-Barocca


giovedì 21 marzo 2019

Diano Castello (IM)

L'abside della Chiesa di Santa Maria Assunta a Diano Castello - Fonte: Wikipedia
Diano Castello (IM), a prescindere dalla tradizione antica e romana che tratta della STAZIONE DEL LUCUS BORMANI, che peraltro dovette essere anche un BOSCO SACRO, divenne un borgo noto ed anche di rilievo militare e politico soltanto dopo le SCORRERIE DEI SARACENI quando la VITTORIA CRISTIANA segnò, oltre che il trionfo della CHIESA DI ROMA, anche quella della NOBILTA' FEUDALE e non solo dei GRANDI FEUDATARI, ma anche dei nobili locali che, PESANTEMENTE ARMATI, finirono per avvolgere la loro figura di un'aura di invincibilità.
Era abbastanza facile, a capo di pochi armati (a volte soltanto di propri servi) avere la megio su nemici armati alla leggera: sia che fossero le frange meno nobili e quindi meno attrezzate degli eserciti saraceni sia che fossero villani e sudditi, magari in rivolta per qualche ingiustizia patita, e quasi impossibilitati, seppur in tanti a sopraffare un cavaliere catafratto cioè corazzato in ogni parte, compreso il preziosissimo cavallo: la carica della cavalleria catafratta fu per secoli l'antemurale che frenò l'evoluzione delle milizie popolari e borghesi.
I Marchesi di Clavesana o comunque i loro ascendenti avevano partecipato vittoriosamente alla spedizione contro i Saraceni e gli stessi Clavesana orgogliosi di quel passato amavano scorrazzare per i loro possedimenti feudali armati in maniera quasi invulnerabili per le povere armi dei soldati provenienti dalla vita dei campi e che spesso brandivano solo delle falci.
I CLAVESANA inoltre, come tutta la nobiltà locale, potevano fruire di munitissime residenze in CASTELLI difficilmente espugnabili per la limitata potenza degli strumenti d'offesa nel corso degli assedi: ne tenevano naturalmente UNO in DIANO CASTELLO, in pratica la CAPITALE del loro DOMINIO [andato però distrutto per il TERREMOTO DEL 1887 (ne rimangono solo poche strutture ed archi ormai assimilati entro il corpo architettonico di abitazioni successive: peraltro anche la CINTA MURARIA CON LE SUE QUATTRO PORTE che rendeva DIANO CASTELLO un centro pressoché imprendibile è stata annientata dallo stesso terribile sisma] ma certo avevano altre basi militari, ben difese e custodite, come il CASTELLO DI CERVO].
Nonostante le loro armi e le loro previdenze i CLAVESANA non poterono comunque impedire che la popolazione di DIANO CASTELLO sensibile alla nuova filosofia di LIBERO COMUNE si rivoltasse in varie circostanze e poi si rivolgesse ad una lleato tanto potente che contro di esso i Clavesana nulla avrebbero mai potuto.
La nuova presenza politico-militare è quella di GENOVA che nel 1199 assorbe il paese entro il suo DOMINIO.
Gli abitanti di DIANO CASTELLO corrisposero meravigliosamente all'aiuto dei Genovesi e contribuirono con uomini e mezzi all'importante vittoria navale di GENOVA su PISA, la vittoria che diede a GENOVA il ruolo di unica DOMINANTE NEL MAR TIRRENO.
Nel palazzo comunale della cittadina, anche per commemorare quegli antichi cittadini di Diano Castello che come BALESTRIERI contribuirono al trionfo genovese, si conserva tuttora un affresco che celebra appunto la VITTORIA DELLA MELORIA del 1284.
La storia successiva della località si fuse con quella della REPUBBLICA DI GENOVA: nell'ambito del DOMINIO DI TERRAFERMA il borgo si sviluppò come capoluogo della PODESTERIA DI DIANO cioè di un'amministrazione genovese -retta da un PODESTA'- con ampi privilegi locali (la "COMMUNITAS DIANI").
La sostanza di questa "storia genovese" di DIANO CASTELLO - di cui a metà XVIII secolo Matteo  Vinzoni per l'"Atlante de il Dominio della Repubblica" redasse una CARTA TOPOGRAFICA- venne meno nel '700 con l'avverarsi di vicende politico-militari susseguenti ai fatti ed alle conseguenze della RIVOLUZIONE FRANCESE.Bella è la PARROCCHIALE DI DIANO CASTELLO intitolata a S.NICOLA DI BARI e realizzata, dal 1698, su disegno di G.B.Marvaldi: essa presenta, secondo il suo pieno stile barocco, pianta rettangolare breve smussata agli angoli.

Tuttavia la CHIESA più significativa di DIANO CASTELLO è quasi certamente quella di NOSTRA SIGNORA ASSUNTA già datata da Nino Lamboglia al XIII secolo e la cui ABSIDE risulta ad archeggiatura continua con peducci figurati.
Fuori del borgo medievale di DIANO CASTELLO si trova una CHIESA anche più antica di quella dell'ASSUNTA. Si tratta della CHIESA DI S. GIOVANNI, dal suggestivo INTERNO, al cui proposito nel libro "Monumenti medievali della Liguria di Ponente" (Torino, 1970, p.69) Nino Lamboglia scrisse: "...è ora ad unica ampia navata, con l'abside integralmente conservata, al pari delle pareti laterali, fino al tetto, che fino ai restauri di fine Ottocento era un rarissimo esempio di capriata lignea a travi e mensole finemente decorati con colori e motivi medievali; presenta tuttavia due fasi costruttive: una protoromanica, forse del secolo XI, che era a tre navate, ormai rase al suolo e visibili solo nelle absidi esterne, ed una del secolo XII avanzato, a navata unica con la sacrestia ricostruita al posto dell'abside destra".

La ricercatrice Daniela Gandolfi, dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri di Bordighera, ha poi studiato nella pianura che sta sotto il borgo medievale di DIANO CASTELLO i resti di una piccola CHIESA DI S. SIRO, ad aula absidata. Dagli scavi archeologici, oltre a reperti dell'edificio cristiano costituiti da un paramento muarario in piccoli blocchi squadrati di pietra, sono emersi resti di più antiche strutture edili e tra queste è stata segnalata una vasca impermeabilizzata con la tecnica del cocciopesto e quindi messa in collegamento con piccoli canali datati al III secolo d. C., cioè alla buona età imperiale romana. Questa scoperta ha indotto a formulare l'ipotesi che qui fosse sorta una villa rustica romana, cioè un'azienda agricola a manutenzione servile sui cui avanzi sarebbe stato poi eretto l'edificio cristiano.

La Chiesa Parrocchiale di San Nicola di Bari a Diano Castello - Fonte: Wikipedia



 da Cultura-Barocca


lunedì 4 marzo 2019

L'ex Casa Conventuale delle Monache Turchine a Sanremo (IM)


Si legge in un moderno repertorio storico che Nel 1635 le terziarie francescane Angela Bottini e le sorelle Catarina e Maria Anselmo, si propongono di erigere nella loro città un convento femminile assolutamente inedito per il Ponente Ligure, vale a dire una casa religiosa dell'Ordine delle Suore Turchine, che derivano tale loro nome dal colore dello scapolare.
Le tre donne entrano quindi nel Monastero di clausura dell'Annunziata a Genova, nella zona di Castelletto ed in un biennio circa riescono ad accumulare(in oblazioni e soprattutto con il munifico concorso del nobile Silvestro Grimaldi) una consistente somma (circa 4.000 lire di genovini) da destinarsi alla realizzazione dell'istituzione .
Le tre suore sanremasche vengono di fatto ascritte all'Ordine delle Suore Turchine nell'Ottobre del 1637 e finalmente il 7 maggio 1638 ottengono il consenso papale necessario alla fondazione del nuovo convento: il loro ritorno a Sanremo data quindi 26 marzo 1639 momento da cui si dedicano al disbrigo delle necessarie pratiche per la fondazione
.
Il Manoscritto Borea che, fra le diverse inesattezze che lo contraddistinguono, continua però a costituire un fonte diretta ed irrinunciabile per la storia di Sanremo nella sostanza ripropone questa vicenda ma con sostanziali distinguo che vale la pena di produrre.
L'iniziativa di realizzare il convento viene collocata nel 1636 e attribuita sì ad una Maria Anselma (ritenuta però di Saorgio) ma, senza citare le altre donne, si fa cenno, come si legge nella cronaca di tale anno alla collaborazione di un certo numero di Beghine: leggendo si notano altresì discordanze sulla scelta, piuttosto casuale, dell'Ordine del nuovo convento e di quella, piuttosto obbligata, della primigenia sede.
Sulla necessità di erigere una nuova CASA CONVENTUALE delle MONACHE TURCHINE (MONACHE CELESTINE) di Sanremo si legge quindi nella cronaca dell'anno 1639: invece dalla cronaca del 1640 si apprendono dati sulle pratiche burocratiche e notarili per l'acquisto della nuova sede.
Il nuovo grande Convento delle Turchine venne ufficialmente aperto il giorno dell'Ascensione del 14-V-1643 ed il 15 maggio del medesimo anno il vescovo ingauno Costa vi celebrò la prima Messa nel corso della quale vestirono l'abito della clausura le sanremesi Innocenza Maruffa e Paola Girolama Poggi.
La vita del convento fiorì tra l'apprezzamento pubblico sino a metà del XIX secolo quando esso venne soppresso, con la pubblica requisizione dell'immobile, in forza dei dettami delle leggi anticlericali dell'epoca (ancora nel manoscritto Borea si legge come quello delle Turchine, nel 1810 fu uno dei quattro CONVENTI DI RELIGIOSE che l'AMMINISTRAZIONE NAPOLEONICA nella sua RIORGANIZZAZIONE DEL CLERO non provvedette a SOPPRIMERE nel PONENTE DI LIGURIA).
Restituito alla fede il Convento delle Turchine fu ceduto, nel 1881, dal governo al Comune di Sanremo: le religiose che vi erano ospitate ottennero un'indennità di buonuscita ed in loro vece l'edificio accolse gli studenti e gli insegnanti del Regio Liceo Ginnasio intitolato all'astronomo Gian Domenico Cassini.
Le recenti necessità imposero un qualche, pur discutibile stravolgimento dell'edificio, con la realizzazione di un corpo avanzato sulla facciata a mezzogiorno e, nel II dopoguerra, con l' abbattimento del campanile e la costruzione dei piani superiori dell'edificio destinato a dar sede oltre che al Liceo "G. D. Cassini", anche alla Scuola Media "I. Calvino", all'Istituto Tecnico "C. Colombo". la sola scuola che attualmente è accorpata nell'antica casa monastica unitamente al locale IPSIA. Proprio per un'adeguazione alle esigenze di queste due grosse scuole la Cappella monastica venne tagliata orizzontalmente e divisa in due piani. Nel superiore trovarono sistemazione la palestra ed alcune aule dell'IPSIA, mentre nell'inferiore l'area absidale fu occupata dalla Biblioteca dell'Istituto Colombo e l'ingresso della chiesa divenne la moderna aula docenti: dopo siffatte trasformazioni la lettura architettonica non risulta più agevole anche se resta abbastanza semplice individuare la pianta a croce greca, alcune nicchie nelle pareti laterali e le volte a crociera che caratterizzano il primo piano dell'istituto.

da Cultura-Barocca

mercoledì 27 febbraio 2019

Ceriana (IM)

Ceriana (IM) in una foto di circa un secolo fa - Fonte: Wikipedia
CERIANA (di non impossibile genesi romana*) sorge all'interno della Valle Armea a 15 Km. c.a da  Sanremo (IM) e 33 da Imperia, ad un'altezza di circa 369 m. sul livello del mare.
Come molti borghi fortificati medievali della Liguria occidentale il paese evidenzia la sua posizione strategica e la particolare tecnica costruttiva per cui le case risultano addossate le une alle altre formando, oltre la cinta muraria, una sorta di cortina contro cui gli eventuali nemici avrebbero dovuto urtare, inerpicandosi poi a fatica e defilati, per l'angustia degli spazi, lungo le strette viuzze (i "Carruggi") dove per pochi difensori sarebbe stato possibile tendere insidie e fermare un numero anche rilevante di aggressori.
Ed ancora una volta, come accade sempre per molti paesi liguri [emblematico è il caso di Dolceacqua], i vari itinerari interni al borgo conducevano anche qui ad un CASTELLO verisimilmente eretto nel XII secolo, ma andato poi distrutto, anche se ne restano alcune tracce relativamente alla cinta muraria e alla porta d'accesso caratterizzate da grossi blocchi in pietra locale non squadrati.
Ceriana (IM), Porta della Pena - Fonte: Wikipedia
Peraltro rimane pure qualcosa della Porta dell'Oppidum o Porta della Pena, rozza, ad arco ribassato; esiste poi un camminamento coperto che comunica con la chiesa di S.Pietro e con la Torre di S. Andrea, quadrata, in pietra e calcestruzzo, con feritoie nella parte inferiore mentre in quella superiore è a cuspide.
Inizialmente il borgo fu possesso feudale dei Conti di Ventimiglia, ma nel 1308 passò sotto la giurisdizione di Corrado vescovo di S. Lorenzo di Genova che vi organizzò una contea rurale.
Nel 1297 il paese fu poi venduto a Giorgio de Mari ed a Oberto Doria.
Esso fu quindi assimilato dalla forte Repubblica di Genova ed inserito nel suo Dominio.
Seguì quindi le sorti di Genova fino a quando, caduta la Repubblica per le conseguenze della Rivoluzione francese, il paese entrò poi, dopo le imprese di Napoleone Bonaparte a far parte dell' Impero Francese di cui seguì le sorti fino alla Restaurazione del Concilio di Vienna nel 1815.
A Ceriana è notevole l'architettura religiosa.
E' per esempio il paese degli Oratori.
Se ne possono ammirare diversi: per esempio quello della Visitazione, retto dalla Confraternita degli Azzurri che si pensa sia stato eretto sulle fondamenta di una struttura romana alla maniera di come si era soliti in Liguria Occidentale ai tempi del Cristianesimo delle origini [tra tanti un caso emblematico può essere considerato quello della chiesa vallecrosina di S.Vincenzo e S.Rocco.
Altri Oratori sono quello di S. Marte retto dalla Confraternita dei Verdi (in cui si ritengono custodite le reliquie dei Martiri Placido e Germanione), quello di S.Caterina in cui si può ammirare una pala in cui è effigiata S.Caterina tra le figure di S. Chiara e S. M. Maddalena [opera che si ritiene di Francesco Brea nipote del pittore ligure-nizzardo F.Brea: l'Oratorio si segnala per la pianta longitudinale e per la facciata giudicata di scuola del Borromini e datata del XVII secolo].
L'edificio religioso di Ceriana che supera tutti per l'intrinseco valore artistico resta però sempre la CHIESA PARROCCHIALE DEI SS. PIETRO E PAOLO che - a giudizio di Rinangelo Paglieri vera autorità sull'architettura religiosa e soprattutto barocca del Ponente di Liguria - "è forse per contenuti e dimensioni l'opera religiosa che più di ogni altra permette di cogliere la perizia e l'arte dell'autore" [l'architetto Domenico Belmonte (1725-1795)]. Iniziata negli ultimi mesi del 1768 per dar corso all'Opera Pia 'lasciata e ordinata dal fu Signor Secondino de Ferrari' che per la sua edificazione aveva messo appositamente a disposizione della Comunità una cospicua somma di danaro, fu consacrata nel 1774 da Monsignor Torre vescovo di Albenga".
In effetti per terminare compiutamente l'opera -come precisa sempre il documentato Paglieri- passerà dell'altro tempo e si arriverà al 1795 quando lo stuccatore Vincenzo Adani lavorerà nel presbiterio e sulle superfici della navata lasciandovi testimonianze della sua formazione neoclassica.
Secondo il Paglieri in particolare nella NAVATA il Belmonte ha dato prova della sua originalità così che nell'INTERNO "attorno ad uno spazio quadrangolare coperto a vela si sommano spazi complementari, delimitati da movimentate superfici, che permettono all'invaso dilatazioni nelle due direzioni ortogonali" (vedi: R. PAGLIERI, Nuovi contributi sull'opera architettonica di D. Belmonte" in "Riviera dei Fiori", 1984, n.1/2).
Come molti paesi del PONENTE LIGURE anche CERIANA vanta un'antica storia religiosa che affonda le sue radici quasi nel CRISTIANESIMO DELLE ORIGINI.
Molto antiche sono quindi le chiese originarie tra cui si deve citare quella di S.ANDREA che la tradizione vuole edificata prima del 1000 sulle fondamenta di un edificio religioso pagano.
La più importante chiesa antica non solo di CERIANA è la CHIESA DI S.PIETRO che costituisce uno dei più begli esempi di architettura romanica in Provincia di Imperia e che durante il suo fulgore non doveva sfigurare nemmeno a confronto della CATTEDRALE DI VENTIMIGLIA o della CHIESA DI S. SIRO DI SANREMO.
La CHIESA DI S. PIETRO fu verisimilmente costruita nel XII o XIII secolo e l'esterno denota la linea originaria (nonostante interventi edili del Quattrocento) a differenza dell'interno che è stato pesantemente rivisitato in epoca barocca.
A CERIANA vi è poi da visitare il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA VILLA una chiesa agreste che signoreggia quasi sulla Valle Armea.
In un paesaggio incontaminato è venerata questa MADONNA che in un'antica lauda è detta BAMBINELA.
Si narra che sul luogo ove fu eretto il SANTUARIO fosse esistita una CAPPELLA INTITOLATA ALLA VERGINE COL TITOLO DI S. MARIA e che questa fosse custodita da un EREMITA: notazione peraltro non priva di qualche significato tenendo conto che la diffusione del CRISTIANESIMO PRIMIGENIO in LIGURIA OCCIDENTALE fu di natura EREMITICA ED ASCETICA e particolarmente di TIPOLOGIA INSULARE come quello dell'ISOLA GALLINARA.
Il SANTUARIO è nominato in documenti molto antichi, già nel 1218, e doveva essere di piccole dimensioni.
Venne ampliato verso il 1623 durante il fervore costruttivo dell'architettura barocca ligure: l'occasione per le migliorie dipese dal fatto che in questo SANTUARIO si recò in PELLEGRINAGGIO la marchesa Antonia Pallavicini che vi eresse una cappellania col compito di doversi dire ogni giorno una messa per lei e la sua famiglia.
In seguito a questa iniziativa il SANTUARIO venne arredato in maniera sempre più importante: nel 1627 da GENOVA giunse una statua della Vergine opera di Domenico Paraca che sostituì la vecchia immagine custodita su un altare in legno di tiglio e che ora risulta conservata nella sacrestia della Parrocchiale di Ceriana: un importante evento fu quando, su committenza degli stessi Cerianesi giunse ad affrescare la volta (con scene di Vita della Vergine e pagine della Bibbia) il pittore Maurizio Carrega.



* la VILLA DI CERIANA, per quanto riguarda la sua origine, rimanda forse ad una GENS COELIA [secondo G.Petracco Sicardi potrebbe anchre rimandare ad una GENS CAERELLIA se la dizione locale tseriàna è di tradizione orale diretta] anche se le labili prove confortano poco sul piano di oggettive relazioni. Alla casualità si può però accostare un principio di causa-effetto, essendo frequenti e noti gli spostamenti dei ceppi padronali in aree dove poter risiedere, svolgendo un'attività commerciale integrata dai cespiti di proprietà fondiarie diversamente gestite. Naturalmente i tempi delle invasioni dei barbari hanno alterato a tal punto il territorio ligure da rendere improbabile il ritrovamento delle tracce di qualche azienda agricola connessa all'iniziativa di una gens romana: per leggere in modo più esteso lo sviluppo demico del paese bisogna rifarsi all'EPOCA MEDIEVALE

da Cultura-Barocca

domenica 24 febbraio 2019

Alla ricerca di un vino perduto: il Moscatello del Ponente Ligure

 











Informatizzazione di Bartolomeo Durante dell'articolo di Bartolomeo Durante in "LA REGIONE LIGURIA", 1981, 10 dal titolo "ALLA RICERCA DI UN VINO PERDUTO: IL MOSCATELLO DEL PONENTE LIGURE"

da Cultura-Barocca

domenica 17 febbraio 2019

Castelvecchio di Imperia, sede di antico castro



CASTELVECCHIO nell'attuale città di Imperia, sede dell'antico castro diruto - secondo la tradizione - ad opera dei Saraceni nel 992, risultava ubicato in sito favorevole allo sbocco della valle.
L'antica CHIESA DI SANTA MARIA MAGGIORE ritta e bianca su un poggio donde si vede per largo spazio venne rifatta verso il 1680 e attribuita all'architetto Gio Batta Marvaldi.
Della chiesa primitiva non rimane altro che qualche traccia muraria nella parte inferiore del campanile (della riedificazione intermedia e medievale rimangono invece il tabernacolo gotico ritenuto della scuola del Gaggini ed ancora la tavola dell'ANNUNCIAZIONE da alcuni studiosi (che però il Meriana studioso di questo Santuario non cita) i quali vorrebbero che fosse opera di Giovanni Mazone (1463-1510).

La CHIESA ORIGINARIA di CASTELVECCHIO, sulla base di minimi dati archeologici e di qualche sondaggio storico necessariamente incuneatosi nei temi dell'agiografia, sarebbe stata eretta almeno in epoca carolingia e quindi dopo la sconfitta dei Longobardi ad opera di Carlo Magno nell'VIII secolo.

Stando a queste valutazioni l'origine della chiesa primigenia sarebbe quindi da collegare alla seconda ondata dell'apostolato benedettino: quello che, per espressa volontà di Carlo Magno avrebbe garantito consistenti compensi ai MONASTERI PEDEMONTANI DI ORIGINE FRANCA RIMASTIGLI FEDELI ed in particolare al CENOBIO DI NOVALESA.
Stando però alla tradizione ed al cenno sulla distruzione dei SARACENI, poiché non si può sempre disconoscere veridicità alla tradizione specie quando le sue comunicazioni sono razionali e tra loro collegate, v'è da credere che l'erezione dell'edificio religioso rientri in un'epoca precedente, mentre si esaurivano o mutavano le manifestazioni delle più MANIFESTAZIONI DI APOSTOLATO BENEDETTINO E NON in Liguria occidentale: e del resto una PERGAMENA datata SEGNI, 9 febbraio 1151 (1152) conservata fra gli ACTA del MONASTERO DI NOVALESA (con cui papa Eugenio III riconfermava i possessi riconosciuti al MONASTERO SUSINO da papa Innocenzo II) non indica in Liguria alcun bene territoriale, con chiese, corti, campi, grange e mulini, tranne che nella VIA ROMEA DEL NERVIA.
E' impossibile dire quali fossero i monaci, verisimilmente Benedettini, che si stanziarono qui dopo aver eretto la chiesa.
Si accetti dunque, per consequenziale metodologia, come esatta la data della distruzione saracena della chiesa di Castelvecchio del 992 (anche se la SCONFITTA SARACENA AD OPERA DELLA COALIZIONE CRISTIANA IDEALMENTE CAPEGGIATA DA SAN MAIOLO risalirebbe a quasi una diecina d'anni dopo, non mancano tracce di radi e sparsi saccheggi perpetrati dalle bande di arabi fuggiaschi ritiratisi a far vita di macchia e brigantaggio).
A questo punto non si possono escludere due principali possibilità: che l'anticha chiesa sia stata eretta dai BENEDETTINI DI PEDONA (estremamente attivi nel Ponente Ligure prima che il loro MONASTERO fosse parimenti distrutto dai Saraceni) o che altri monaci ancora abbiano posto qui le loro basi come quelli di LERINO che operarono (e non solo) nell'AREA DI RIVA LIGURE E SANTO STEFANO AL MARE creandovi un loro PRINCIPATO ECCLESIASTICO (ma anche in questo caso le datazioni discorderebbero essendo stati favoriti gli insediamenti di Lerino dalla Cattedra di Genova e dalle Diocesi ancora una volta per dar ristoro alle terre dell'Estremo Ponente ligure ma "dopo la fine del pericolo Saraceno" o, perlomeno, stando agli atti superstiti, dal 980, quando la potenza degli Arabi del Frassineto risultava in netta fase calante e non era impossibile prevedere una loro distruzione a breve scadenza).

Tenendo conto della varietà cronologica e tipologica degli INSEDIAMENTI BENEDETTINI nell'estremo Ponente in questa sede si può solo affermare che, pur essendosi potuto inserire sul tronco di precedenti MANIFESTAZIONI MONASTICHE, ASCETICHE ED EREMITICHE, ANCHE DI CULTURE TEOLOGICHE DISTINTE, il FENOMENO BENEDETTINO resta quello cui con massima possibilità di correttezza critica si può attribuire il COMPLESSO RELIGIOSO DI CASTELVECCHIO ed ancora che l'INSEDIAMENTO MONASTICO DISTRUTTO DAI SARACENI nel X secolo con discrete probabilità si può ascrivere ai mai completamente interpretati spostamenti dei monaci della sventurata PEDONA peraltro, ancor più dei NOVALICIENSI, propensi per cultura e scienza all'incentivazione della COLTURA DELL'OLIVO.
Da queste osservazioni però si intende che bene hanno scritto quegli storici ed archeologi che hanno definita questa come una zona ancora tutta da esplorare sia sotto il profilo archeologico, sia sotto quello urbanistico-architettonico, conserva interessanti resti dell'epoca mediovale.
Secondo la cultura politica e religiosa dei Benedettini l'insediamento monastico (come in tempi simili avvenne a VILLAREGIA, nella grande area tra BUSSANA e TAGGIA avrebbe potuto e probabilmente dovuto svilupparsi sulle basi di un insediamento precedente.
Questo avrebbe potuto essere un insediamento monastico di esperienze più antiche ma, al modo che per esempio è avvenuto a SAN ROCCO DI VALLECROSIA, oltre che nello stesso FONDO DI VILLAREGIA, ma solo approfondite indagini archeologiche, se possibili, sarebbero in grado di svelare le eventuali sovrapposizioni.
Certo il fatto che fosse stata individuata per esser sede di CHIESA MATRICE (per giunta titolata all'ASSUNTA secondo una linea di consacrazioni consueta fra i Benedettini dell'apostolato originario) fa pensare che in CASTELVECCHIO (che peraltro gode di una logistica favorevole sotto ogni profilo per il controllo dei traffici) le civiltà alternatesi avessero impiantato basi o strutture produttive: e che in particolare i BARBARI e quindi i BIZANTINI e poi ancora i LONGOBARDI nel loro contrapporsi reciproco avessero dato un particolare rilievo demico ed insediativo a questo luogo disposto -non lo si dimentichi- a guardia del sistema di valle ma soprattutto in rapporto con la VIA STORICA DEL PIEMONTE avendo quali schermi protettivi a monte i fondamentali centri di VIA DEL NAVA.
Discorso questo che assume notevole valenza se, anziché chiudersi nei particolarismi subregionalistici, si valuta il particolare e l'insieme: e per esempio si nota come il CASTELLO DI DOLCEACQUA, lo SPERONE DI CAMPOMARZIO e quindi il COMPLESSO DEL CASTELVECCHIO sono speculari (ancor più speculari poi se si crede al documentatissimo Molle su il fatto che il "fiume di Oneglia" venisse superato presso il Castelvecchio [che sarebbe stato un FORTE ROMANO poi rivisitato militarmente da altri conquistatori] da un PONTE ROMANO).
Le convergenze su questa linea di riflessioni oltre che speculari vengono giustificate dalla logica militare e rimandano sia agli interventi protettivi sull'area dell'attuale imperia condotti prima dall'imperatore COSTANZO e quindi da TIBERIO MAURIZIO: di conseguenza i TRE CENTRI TATTICI si sarebbero trovati pressoché in asse strategica, con posizioni molto simili, in aree elevate con la protezione a ponente di un corso d'acqua ed a protezione di un ponte ed ancora (oltre che soprattutto) a guardia sia del territorio di costa che del traffico delle TRE VIE DEL PIEMONTE -quella del NERVIA, dell' ARGENTINA e finalmente questa del NAVA.

Questi dati soltanto però sono recuperabili, dati che soprattutto rimandano a pur plausibili ipotesi.
Nulla di significativo e monumentale rimane a CASTELVECCHIO per giustificare la continuazione di questi pensieri: poco conta ad esempio che vicino al cimitero sorga un oratorio della seconda metà del Seicento, il cui precario stato di conservazione è riscontrabile nelle vetuste strutture murarie.


da Cultura-Barocca

sabato 9 febbraio 2019

Cenni sul vino Rossese

Evoluzione della viticoltura nel ponente della provincia di Imperia (disegni e grafici di Michelangelo Durante)

Scheda messa a disposizione dall'Istituto Internazionale di Studi Liguri di Bordighera e redatta grazie agli studi svolti presso il Museo Gallesio-Piume di Genova


 


E' evidente l'impianto d'architettura rurale delle FASCE ricavate per la coltura dei VITIGNI DI ROSSESE, una COLTURA - DOPO IL TRACOLLO A CAUSA DELLE MALATTIE PARASSITARIE DEI VITIGNI TRADIZIONALI COMPRESO IL CELEBERRIMO "MOSCATELLINO" ESALTATO DA POETI E SCRITTORI QUAL DEGNO DELL'OTIUM NEGOTIOSUM DEI CLASSICI GRECI E LATINI EVOLUTASI DAL XIX SEC. CON INNESTO DI PRODOTTI LOCALI SU CEPPI AMERICANI da cui si ricava un VINO, appunto il ROSSESE tanto buono da esser stato celebrato addirittura in questa SEQUENZA PITTORICA DI MARCELLO CAMMI (di cui si può ammirare qui di seguito un'altra opera di diversa ispirazione).


"VINO UNICO AL MONDO DI BORDIGHERA" - SCRISSE IL PITTORE CAMMI - ANCHE SE SI TRATTAVA PIU' PROPRIAMENTE IL "ROSSESE".
La sopraelevazione del terreno, il suo riporto, il drenaggio idrico è stato realizzato attraverso la ripresa della tecnica colturale benedettina della GRANGIA. Molti di questi MURI A SECCO esistono da secoli: per la loro manutenzione i contadini erano soliti utilizzare il terreno fresco emerso dai ripascimenti. A volte, senza rendersene conto, recuperavano dalle zolle oggetti archeologici (monete, frammenti di ceramica, tracce di corredi funebri, residui organici ecc.) che inserivano negli interstizi dei muri a secco in modo da colmare alcune falle o spazi apertisi per lo smottamento: alcuni archeologi di superficie, esperti a leggere nei MURI A SECCO,non hanno mancato di ritrovare negli interstizi alcune interessanti tracce del passato anche remoto della civiltà ligure: specie in aree, come l'agro delle valli intemelie = in particolare della VALLE DEL NERVIA (non esclusa una PORZIONE DELLA VALLE DEL ROIA), quindi dell'AREALE DI DOLCEACQUA.

Il "Rossese di Dolceacqua", detto anche solo "Dolceacqua", è un vino prodotto nel ponente ligure, ed esattamente in val Nervia, in val Verbone ed in una porzione della Valle Roia nella provincia di Imperia. I principali comuni interessati nella produzione sono Camporosso, Dolceacqua, Perinaldo, San Biagio della Cima, Soldano, Vallecrosia, Ventimiglia. Il disciplinare D.O.C. del Rossese di Dolceacqua è stato il primo ad essere approvato in Liguria, nel 1972.


da Cultura-Barocca

martedì 5 febbraio 2019

Un arduo sfruttamento di legname di oltre un secolo fa

Perinaldo (IM) ed uno scorcio della Valle del Verbone
Se la valle del Crosa o Verbone (IM) non conobbe specificatamente la civiltà del castagno (tipica dell’epoca medievale ligure), certamente conobbe quella, terribile per tanti versi, legata all’uso del legno, essenziale per il sostentamento della “vita rustica”.
All’alba del XX  secolo la valle risentì a tal proposito dello sfruttamento del patrimonio ligneo che a nord, nell’area di Perinaldo (IM), si presentava in boschi secolari assai lucrosa per i bastimenti in massima parte ancora lignei come si vede nell’immagine d’epoca concernente il Porto di Genova.



Sull’argomento non esistono molte documentazioni scritte e latitano anche quelle fotografiche: ma da quanto si è potuto ricostruire dalla consultazione dell’archivio privato di Silvio Croesi (padre dell’ex Sindaco di Perinaldo Emilio Croesi) l’iniziativa nel suo momento di massima fioritura del 1909-10, fu stimolata da Pietro Malfassi grosso operatore bergamasco nel settore dei legnami da costruzione che, pur avendo nel Tirolo la fonte principale dei suoi interessi, seppe individuare nell’area di Perinaldo un’autentica vena lignea.
In verità il Malfassi non operò direttamente nella zona e si valse piuttosto della competenza del citato Silvio Croesi, il cui padre già gestì a Genova una consistente azienda commerciale.
Sanremo fu il luogo in cui i due personaggi escogitarono, oltre le necessarie operazioni legali e pubbliche con cui ottenere tutte le diverse autorizzazioni, un intelligente meccanismo per il cui tramite superare gli ostacoli geomorfologici del terreno e condurre i tronchi tagliati a destinazione: cioè ai Piani di Vallecrosia, campo principale e deposito del materiale.
Perinaldo come testa di ponte di un sistema di trasporti era un problema, tenendo conto e degli strumenti utilizzabili all’epoca, insufficienti per le esigenze del Malfassi (lettera del Malfassi del 2-V-1909 in “Archivio cit.”: “non si deve vendere meno di 200 vagoni annui nella media di 3 anni”) e di un improprio sistema viario: la provinciale da Vallecrosia era ARDUA e inutilizzabile la strada litorale di Camporosso a Perinaldo (di cui già si discusse dal lontano 1831, doc. del 18-VIII-1831 in “Archivio privato Poggi/Bordighera”).
Ci si appoggiò quindi ad un vetusto itinerario di trasporti che, dall’area di disboschimento più arretrata rispetto a Perinaldo, portava qualsiasi tipo di materiale sino alla testa di ponte istituzionale (Suseneo-S. Martino) che apriva il più facile percorso attraverso la valle del Verbone.

Tra Perinaldo e Soldano
Il torrente veniva superato con una TELEFERICA sin all’area di Massabò (località Poggio dei Rossi).


 
Fu così potenziata una rete viaria “montagnosa” per il tramite di un SISTEMA A ROTAIA: su impossibili pendenze, trainati da mule o controllati da un frenatore in discesa autonoma, carrelli di consistenti dimensioni portavano i tronchi tagliati sino al punto di poter essere rovesciati nella valle del Verbone e di lì ancora per il tramite di rotaie e vagoncini, condotti sino a Vallecrosia, sfruttando o superando le tortuosità della provinciale con l’aiuto degli animali (Archivio privato S. Croesi di Perinaldo - lettere ad anno 1909).
A VALLECROSIA (PIANI) esisteva il TERMINALE DI QUESTO SISTEMA DI TRASPORTO GRAZIE AI MULI DEL LEGNAME RICAVATO DAI BOSCHI DEL TERRITORIO A NORDI DI PERINALDO il deposito del materiale e sul LITORALE (foce del Verbone non molto lontano dai resti del GUADO ROMANO NEL TORRENTE> non ancora distrutto) = quello che i più vecchi ricordano come PORTO.



In effetti, come si vede, si trattava più pertinentemente di un pontile a rotaia, di ferro e penetrante nel mare per qualche centinaio di metri, su cui correva una gru, o meglio un elevatore destinato a caricare il legname che avrebbe preso la strada per Genova (tramite battelli, in parte ancora a vela, da carico) e di lì anche per la Sardegna, la Spagna, la Tunisia (dove il Malfassi tenne affari).
In effetti l’azienda bergamasca operava però prioritariamente sul litorale ligure e nel piemontese: ” … la vendita di 200 vagoni per anno dell’importo di L. 240.000 circa, questi certamente devono essere venduti sul litorale, anche nel piemontese, perchè tengo altro contratto” (Archivio cit., lettera del Malfassi datata Bergamo 20-IV-1909).
Ma il Malfassi non fu l’unico a sfruttare il patrimonio boschivo del territorio a Nord e Nord-Est del terminale della val Crosa.
Altre aziende sfruttarono alcune improvvide concessioni e un programma, non sempre criteriato di disboscamento.
A Vallecrosia (Piani) operava una GROSSA SEGHERIA, una vera e propria azienda (zona attuale via Colombo - antico toponimo Segheria ): temendone la concorrenza, ed il fatto che i valligiani di essa si erano abitualmente serviti, Silvio Croesi allarmato scrisse da Perinaldo al Malfassi a Bergamo (in Archivio cit. 26-IV-1909): “… vi è inoltre da calcolare che la segheria di Vallecrosia è di non indifferente ostacolo giacchè da molto tempo ha accapparati la maggior parte ed il miglior contingente dei consumatori del litorale pur non tenendo conto delle colossali ditte di Sampierdarena che non hanno mai tralasciato a mezzo dei loro agenti la viva e inappuntabile distribuzione dei loro prodotti” .
Ma l’imprenditore bergamasco tenne duro, fece scivolare i contratti nella direzione, anche, dei paesi iberici: l’operazione decollò, pure sfruttando mano d’opera di Vallecrosia e San Biagio della Cima.
Poi, cambiato il mercato del legname, l’emorragia dei boschi venne meno e sulle cime oltre Perinaldo ritornò l’antica tranquillità.
L’impianto di funivie e binari venne smantellato, il pontile fu demolito (sott’acqua si può rischiare d’incappare in qualche troncone metallico della vecchia struttura tuttora ancorato al fondale) ma, sotto gli effetti del ricordo e del tempo che tutto ingigantisce, nel ricordo di qualcuno finì per diventare l’appendice di un porto molto grande che Vallecrosia non ebbe mai…

da Cultura-Barocca

giovedì 31 gennaio 2019

Sul Castello di Portiloria


Il FORTE (O CASTELLO) DI PORTILORIA costituisce uno tra i punti più enigmatici ma anche affascinanti in merito alle FORTIFICAZIONI DI VENTIMIGLIA [(IM)] (CLICCA E VEDI) in rapporto anche a quell'antemurale naturale per la città che fu il FIUME ROIA ("ROYA" ANTICAMENTE RUTUBA = VEDI).
La stessa logistica dello scomparso CASTELLO DI PORTILORIA (ANCHE PORZIOLA) rimanda a parecchi interrogativi sia all'areale che ad altre ALTRE STRUTTURE MILITARI DI CUI QUI SI OFFRE UN ATTENTO RENDICONTO atteso inoltre che se come qui di seguito si legge IL CASTELLO ERA UN FORTILIZIO AVANZATO VERSO IL NERVIA una vita non guerresca ma assai importante, di natura prevalentemente agricola ma altresì di transito,
RUOTAVA, COME ANCORA CLICCANDO QUI SI LEGGE, INTORNO A QUESTA STRUTTURA BELLICA [al cui interno, e questo è il caso della sua prima citazione del fortilizio, venne firmata nel 1246 una convenzione tra Ventimiglia e Dolceacqua per una reciproca collaborazione anche in caso di guerra incluso plausibilmente lo sfruttamento da parte di Doceacqua dell'approdo del Nervia con i percorsi dell'epoca, non senza verosimilmente precindere dall'accesso al porto del Roia/Roya (ma ferma restando, nonostante questi accordi e ulteriori scontri l' ineluttabilità della storia "genovese" di Ventimiglia [(IM)] e suo contado documentata dall'8-VII-1251 quando Fulco Curlo e Ardizzone De Giudici si recarono a Genova dal Podestà Menabò Torricella per le convenzioni che sancirono la fine del Comune intemelio proiettandolo definitivamente nel "Dominio" della Repubblica siffatta convenzione durò relativamente poco e anche dal lato fiscale e viario dopo che nel 1296 Dolceacqua tentò l'improba strada all'acquisita Ripa Nerviae ad Rotam si ritornò, non senza liti, al tragitto antico sin agli approdi intemeli fu riattivato, in rapportò però alle mutate condizioni geopolitiche, nel 1355].
Il CASTELLO DI PORTILORIA aveva del resto un'indubbia e molteplice serie di funzioni = esso GUARDAVA quanto restava del porto canale del Nervia (e quindi l'omonima piana sulla riva occidentale, alla foce, di questo torrente ) e poi la via di fondovalle, i resti del tragitto costiero romano, il duecentesco ponte di legno sul torrente ( di Amand., cit., doc. 641 del 28-VIII-1254) con il sostanziale quadrivio viario di Nervia = ma la vastità delle potenzialità strategiche e di visualizzazione dei siti non si fermava lì atteso che attraverso le presumibili postazioni in altura siffatta vastità di controllo si estendeva ben oltre (poteva controllare, oltre ad eventuali pericoli provenienti dal mare, la vasta zona dei Piani di Vallecrosia dove ancora sopravvivevano medesti reperti della Strada Romana o Strata Antiqua, cui si accedeva dall'importante Guado "del Verbone o Torrente del Crosa, conducendo ad un polmone agricolo storico tradizionale quello delle Braie verosimilmente percorso, benché chissà in quali condizioni però, dalla deviazione, gergalmente poi denominata "strada per Camporosso" .
Il FORTE (da non confondersi assolutamente con torri, erette o già esistenti, attrezzate contro i Turchi a guardia del mare e quindi prossime alla costa o con resti di strutture militari posteriori a partire dalla settecentesca "Guerra di Successione per il Trono Imperiale" = vedi qui una carta antica multimedializzata e la stessa, senza moderne attivazioni di voci, come nel '700 la realizzò l'ingegnere di guerra genovese M. Vinzoni) sorgeva verosimilmente in una posizione egemone (sì da sfruttare il sito strategico ed ad elevata potenzialità d'osservazione di "COLLA SGARBA") rispetto a queste proprietà e agli eventuali insediamenti, su un sito relativamente in altura relativamente all'odierna parrocchiale nervina di Cristo Re eretta non lungi da dove stava nel '700 la ridotta o forte Orengo degli Austro-Sardi (nel XVIII secolo ai tempi della guerra di successione al trono imperiale), a sua volta edificato nel PREDIO (CASSINA) ORENGO già prebenda episcopale dal 1260 - 1261: poco più in basso di dove stava il CASTRUM AQUAE [o distributore alle condotte cittadine del rifornimento idrico portatovi da due acquedotti provenienti da rio Seborrino] eretto dagli ingegneri e dagli operai idraulici di Romani e nei pressi una struttura basilicale del medio Impero, rilevata di recente, su cui in seguito venne forse costruito un edificio paleocristiano (G. Rossi, Dove si trovava il castello di Portiola , “Giornale storico e letterario della Liguria”, 1 (1900), p. 376-80 (latino Portiloria = volgar. Portiola, pron. Porziola): "Manuele, conte e capitano di Ventimiglia, con il consenso dei consiglieri e del consiglio di Ventimiglia, stipula un patto con Carlevario e Giacomo Preposito – per parte di Dolceacqua – onde le due comunità collaborino in pace e guerra con Genova e il conte di Provenza e contestualmente possano percepire i diritti bannali dei cittadini abitanti nei vicini rispettivi distretti. Il documento detta in questa modo: Nos Manuel comes et capitaneus hominum Vintimilii et voluntate et consensu consiliariorum Vintimili et consilio congregato more solito, scilicet Raimundi Saxi, Oberti Marosi, Fulconis de Castello, Wilelmi Prioris, Conradi Intraversati, Fulconis Curli, Ottonis Marchesii, Ugo Speronis, Willelmi Bonabella, Jacobi Grilati, Raimondi Prioris, Wilelmi Valorie, Rubaldi Balbi et nomine capitaneatus Vintimilii concedimus vobis Carlevario consuli Dulcisacque, quod vos possitis accipere banna de seminatis vestris et vestris agregis quos habetis infra territorium Vintimilii de omnibus hominibus preter de hominibus Vintimilii et de suo districtu... in sursum versus collam de fino. Et de dictis confinis in sursum possitis capere banna de vestris seminatis et agregis sicuti dictum est. Item promittimus vobis quod nos non faciemus pacem nec concordiam cun Genuensibus sine vobis. Et contra Iannuenses et Comitem Provincie si guerram habueritis promittimus vobis iuvare pro posse nostro. Et hec omnia predicta promittimus vobis attendere sub ipoteca bonorum Vintimilii. Item nos Carlevarius consul Dulcisaque et Iacobus Prepositus nomine communitatis Dulcisaque promittimus vobis Manuelo capitaneo hominum Vintimilii, quod nos non faciemus pacem nec concordiam cum Genuensibus sine vobis. Et promittimus vobis iuvare pro posse nostro de guerra quam habetis vel habueritis cum Genuensibus et cum Comite Provincie. Et predicta promittimus vobis attendere sub ypoteca bonorum nostrorum. Testes presbiter Ugo Ferrar, Rainaldus Garillius, Ugo Conqua de Saurgio/ Actum in castro Portilorie die XVI. octobris anno dominice incarnationis MCCXLII. inditione V./ Ego Wilelmus Bermundus sacri Palatii notarius extraxi de cartulario quondam magistri Wilelmi notarii nihil addito vel diminuto literam vel punctum quod mutet sententiam vel sillabam scripsi. = Albintimilium...cit., p. 158-9, 183 nota, 189 nota e 197-8).

Tale CASTRO confinava più in alto con la terra di Giorgio Cataneo, inferiormente con l'acqua del Nervia, da un lato con la terra di Mauro de Mauri, dall'altro con quella di Guglielmo Maroso...": da altri documenti si apprende che vi eran nei pressi terre coltivate ed un pozzo per l'abbeveraggio (Id., doc. 357 del 25-III-1261): il toponimo, da cui il FORTE traeva nome, risulta variamente nominato dal notaio di Amandolesio quasi a testimoniare che, accanto alla struttura militare, vi esistessero dei casolari con residenti stabili, impegnati nell'attività rurale.
Sempre dal duecentesco notaio genovese si evince la presenza nel luogo, vale a dire nell'AREALE DEL SITO DI NERVIA SU CUI GRAVITAVANO VILLE RURALI IMPORTANTI TRA CUI CAMPOROSSO (CAMPUS RUBEUS) di strutture funzionali per la vita agricola oltre che come detto di terreni da porre a coltura e di tutto quanto fosse necessario, partendo dalla gastronomia, per la vita di relazione: vedi qui doc. 260 del 9 giugno 1260 [citazione di troilum et fons (che sfruttavano ancora la portata degli acquedotti romani?) = Importante è anche il doc. 563 del 18 maggio 1262 (colture di di fichi e di viti [in questo caso, oltre al comsueto toponimo, compare nel documento la citazione IN PLANO NERVIE evidentemente per indicare la zona pianeggiante, a sud dell'area vera e propria del castello, dove grossomodo corrono oggi la via statale e la ferrovia, sino a confinare con la prebenda episcopale, area dell'ex officina del gas e dell'attuale comprensorio ospedaliero intemelio)].

da Cultura-Barocca