giovedì 31 gennaio 2019

Sul Castello di Portiloria


Il FORTE (O CASTELLO) DI PORTILORIA costituisce uno tra i punti più enigmatici ma anche affascinanti in merito alle FORTIFICAZIONI DI VENTIMIGLIA [(IM)] (CLICCA E VEDI) in rapporto anche a quell'antemurale naturale per la città che fu il FIUME ROIA ("ROYA" ANTICAMENTE RUTUBA = VEDI).
La stessa logistica dello scomparso CASTELLO DI PORTILORIA (ANCHE PORZIOLA) rimanda a parecchi interrogativi sia all'areale che ad altre ALTRE STRUTTURE MILITARI DI CUI QUI SI OFFRE UN ATTENTO RENDICONTO atteso inoltre che se come qui di seguito si legge IL CASTELLO ERA UN FORTILIZIO AVANZATO VERSO IL NERVIA una vita non guerresca ma assai importante, di natura prevalentemente agricola ma altresì di transito,
RUOTAVA, COME ANCORA CLICCANDO QUI SI LEGGE, INTORNO A QUESTA STRUTTURA BELLICA [al cui interno, e questo è il caso della sua prima citazione del fortilizio, venne firmata nel 1246 una convenzione tra Ventimiglia e Dolceacqua per una reciproca collaborazione anche in caso di guerra incluso plausibilmente lo sfruttamento da parte di Doceacqua dell'approdo del Nervia con i percorsi dell'epoca, non senza verosimilmente precindere dall'accesso al porto del Roia/Roya (ma ferma restando, nonostante questi accordi e ulteriori scontri l' ineluttabilità della storia "genovese" di Ventimiglia [(IM)] e suo contado documentata dall'8-VII-1251 quando Fulco Curlo e Ardizzone De Giudici si recarono a Genova dal Podestà Menabò Torricella per le convenzioni che sancirono la fine del Comune intemelio proiettandolo definitivamente nel "Dominio" della Repubblica siffatta convenzione durò relativamente poco e anche dal lato fiscale e viario dopo che nel 1296 Dolceacqua tentò l'improba strada all'acquisita Ripa Nerviae ad Rotam si ritornò, non senza liti, al tragitto antico sin agli approdi intemeli fu riattivato, in rapportò però alle mutate condizioni geopolitiche, nel 1355].
Il CASTELLO DI PORTILORIA aveva del resto un'indubbia e molteplice serie di funzioni = esso GUARDAVA quanto restava del porto canale del Nervia (e quindi l'omonima piana sulla riva occidentale, alla foce, di questo torrente ) e poi la via di fondovalle, i resti del tragitto costiero romano, il duecentesco ponte di legno sul torrente ( di Amand., cit., doc. 641 del 28-VIII-1254) con il sostanziale quadrivio viario di Nervia = ma la vastità delle potenzialità strategiche e di visualizzazione dei siti non si fermava lì atteso che attraverso le presumibili postazioni in altura siffatta vastità di controllo si estendeva ben oltre (poteva controllare, oltre ad eventuali pericoli provenienti dal mare, la vasta zona dei Piani di Vallecrosia dove ancora sopravvivevano medesti reperti della Strada Romana o Strata Antiqua, cui si accedeva dall'importante Guado "del Verbone o Torrente del Crosa, conducendo ad un polmone agricolo storico tradizionale quello delle Braie verosimilmente percorso, benché chissà in quali condizioni però, dalla deviazione, gergalmente poi denominata "strada per Camporosso" .
Il FORTE (da non confondersi assolutamente con torri, erette o già esistenti, attrezzate contro i Turchi a guardia del mare e quindi prossime alla costa o con resti di strutture militari posteriori a partire dalla settecentesca "Guerra di Successione per il Trono Imperiale" = vedi qui una carta antica multimedializzata e la stessa, senza moderne attivazioni di voci, come nel '700 la realizzò l'ingegnere di guerra genovese M. Vinzoni) sorgeva verosimilmente in una posizione egemone (sì da sfruttare il sito strategico ed ad elevata potenzialità d'osservazione di "COLLA SGARBA") rispetto a queste proprietà e agli eventuali insediamenti, su un sito relativamente in altura relativamente all'odierna parrocchiale nervina di Cristo Re eretta non lungi da dove stava nel '700 la ridotta o forte Orengo degli Austro-Sardi (nel XVIII secolo ai tempi della guerra di successione al trono imperiale), a sua volta edificato nel PREDIO (CASSINA) ORENGO già prebenda episcopale dal 1260 - 1261: poco più in basso di dove stava il CASTRUM AQUAE [o distributore alle condotte cittadine del rifornimento idrico portatovi da due acquedotti provenienti da rio Seborrino] eretto dagli ingegneri e dagli operai idraulici di Romani e nei pressi una struttura basilicale del medio Impero, rilevata di recente, su cui in seguito venne forse costruito un edificio paleocristiano (G. Rossi, Dove si trovava il castello di Portiola , “Giornale storico e letterario della Liguria”, 1 (1900), p. 376-80 (latino Portiloria = volgar. Portiola, pron. Porziola): "Manuele, conte e capitano di Ventimiglia, con il consenso dei consiglieri e del consiglio di Ventimiglia, stipula un patto con Carlevario e Giacomo Preposito – per parte di Dolceacqua – onde le due comunità collaborino in pace e guerra con Genova e il conte di Provenza e contestualmente possano percepire i diritti bannali dei cittadini abitanti nei vicini rispettivi distretti. Il documento detta in questa modo: Nos Manuel comes et capitaneus hominum Vintimilii et voluntate et consensu consiliariorum Vintimili et consilio congregato more solito, scilicet Raimundi Saxi, Oberti Marosi, Fulconis de Castello, Wilelmi Prioris, Conradi Intraversati, Fulconis Curli, Ottonis Marchesii, Ugo Speronis, Willelmi Bonabella, Jacobi Grilati, Raimondi Prioris, Wilelmi Valorie, Rubaldi Balbi et nomine capitaneatus Vintimilii concedimus vobis Carlevario consuli Dulcisacque, quod vos possitis accipere banna de seminatis vestris et vestris agregis quos habetis infra territorium Vintimilii de omnibus hominibus preter de hominibus Vintimilii et de suo districtu... in sursum versus collam de fino. Et de dictis confinis in sursum possitis capere banna de vestris seminatis et agregis sicuti dictum est. Item promittimus vobis quod nos non faciemus pacem nec concordiam cun Genuensibus sine vobis. Et contra Iannuenses et Comitem Provincie si guerram habueritis promittimus vobis iuvare pro posse nostro. Et hec omnia predicta promittimus vobis attendere sub ipoteca bonorum Vintimilii. Item nos Carlevarius consul Dulcisaque et Iacobus Prepositus nomine communitatis Dulcisaque promittimus vobis Manuelo capitaneo hominum Vintimilii, quod nos non faciemus pacem nec concordiam cum Genuensibus sine vobis. Et promittimus vobis iuvare pro posse nostro de guerra quam habetis vel habueritis cum Genuensibus et cum Comite Provincie. Et predicta promittimus vobis attendere sub ypoteca bonorum nostrorum. Testes presbiter Ugo Ferrar, Rainaldus Garillius, Ugo Conqua de Saurgio/ Actum in castro Portilorie die XVI. octobris anno dominice incarnationis MCCXLII. inditione V./ Ego Wilelmus Bermundus sacri Palatii notarius extraxi de cartulario quondam magistri Wilelmi notarii nihil addito vel diminuto literam vel punctum quod mutet sententiam vel sillabam scripsi. = Albintimilium...cit., p. 158-9, 183 nota, 189 nota e 197-8).

Tale CASTRO confinava più in alto con la terra di Giorgio Cataneo, inferiormente con l'acqua del Nervia, da un lato con la terra di Mauro de Mauri, dall'altro con quella di Guglielmo Maroso...": da altri documenti si apprende che vi eran nei pressi terre coltivate ed un pozzo per l'abbeveraggio (Id., doc. 357 del 25-III-1261): il toponimo, da cui il FORTE traeva nome, risulta variamente nominato dal notaio di Amandolesio quasi a testimoniare che, accanto alla struttura militare, vi esistessero dei casolari con residenti stabili, impegnati nell'attività rurale.
Sempre dal duecentesco notaio genovese si evince la presenza nel luogo, vale a dire nell'AREALE DEL SITO DI NERVIA SU CUI GRAVITAVANO VILLE RURALI IMPORTANTI TRA CUI CAMPOROSSO (CAMPUS RUBEUS) di strutture funzionali per la vita agricola oltre che come detto di terreni da porre a coltura e di tutto quanto fosse necessario, partendo dalla gastronomia, per la vita di relazione: vedi qui doc. 260 del 9 giugno 1260 [citazione di troilum et fons (che sfruttavano ancora la portata degli acquedotti romani?) = Importante è anche il doc. 563 del 18 maggio 1262 (colture di di fichi e di viti [in questo caso, oltre al comsueto toponimo, compare nel documento la citazione IN PLANO NERVIE evidentemente per indicare la zona pianeggiante, a sud dell'area vera e propria del castello, dove grossomodo corrono oggi la via statale e la ferrovia, sino a confinare con la prebenda episcopale, area dell'ex officina del gas e dell'attuale comprensorio ospedaliero intemelio)].

da Cultura-Barocca


martedì 22 gennaio 2019

Sulla fine della Comunità degli Otto Luoghi

In altura tra San Biagio della Cima (IM) e Vallebona ed uno scorcio di Montenero, in gran parte di Bordighera: tutte località un tempo appartenenti alla Comunità degli Otto Luoghi
Nell'aprile del 1814, dopo l'abdicazione del Bonaparte sconfitto a Lipsia dagli alleati, gli inglesi entrarono in Genova e restaurarono la Serenissima Repubblica, fra la contentezza di tutti i ceti sociali sfiancati dai lunghi anni delle guerre napoleoniche.
Si trattò però di un atto provvisorio in quanto‚ un anno dopo il Congresso di Vienna, per un quasi naturale appagamento dei Savoia, la Liguria fu assegnata al Regno di Sardegna.

Bordighera (IM) divenne allora Comune indipendente con proprio Sindaco: il territorio della Contea di Ventimiglia venne di nuovo smembrato senza essere eretto in Provincia.

La Liguria occidentale restò quindi divisa nelle tre province di Nizza, Sanremo e Oneglia con un'alterazione degli equilibri che avevano governato di Ventimiglia e degli Otto Luoghi: per esempio a differenza della città e soprattutto di Camporosso, Villa con cui ebbe una lunga storia comunitaria, che vennero ascritte alla Provincia di Nizza, Bordighera rientrò nella Provincia di Sanremo e siffatto smembramento finì per complicare seriamente i rapporti burocratici ed amministrativi tra centri legati da antichi interessi unitari e messi ora in condizione di far capo, con vari e comprensibili problemi, a due distinti Capoluoghi burocratici.
Infatti, benché la "Comunità degli Otto Luoghi", come istituzione politico-amministrativa, non esistesse più da anni, attesi gli eventi rivoluzionari e poi i provvedimenti di Napoleone I, sopravvivevano interessi comuni tra gli otto paesi, da cui era stata istituita, che i Sindaci, anche per evitare scontri di interesse, scelsero ancora di trattare in maniera collegiale, pur rendendosi ormai inevitabile una revisione amministrativa e confinaria tra le ville, ora moderni comuni, revisione che, per tanti fattori, si protrasse a lungo, fra il 1819 ed il 21 giugno 1848.

Dal 1817 iniziarono le prime incomprensioni, poi dal 1819 si intrapresero le pratiche di divisione ufficiale e queste, annosamente, si trascinarono sino al 1848 quando una delegazione, di Regio incarico, costituita dall'Intendente della Provincia, dall'Avvocato Fiscale e dal Prefetto del Tribunale di Sanremo riuscì a risolvere i diversi interessi.

Dal 21 giugno 1848 Vallecrosia, che ormai aveva una pluridecennale esperienza comunale, vide finalmente sanciti i suoi limiti amministrativi la Municipalità non parve però soddisfatta dalla soluzione in quanto l'operazione, che attribuì a Camporosso uno sbocco al mare, lasciò perplessi e fece, a più di un abitante di Vallecrosia, maturare l'ipotesi di un'illecita mutilazione.

Il problema della sistemazione dei confini e conseguentemente dell'individuazione delle distinte aree amministrative aggiudicabili rispettivamente agli otto borghi dell'ormai estinta Magnifica Comunità, fu annoso e controverso, ma si può ben dire che proprio dalla sua tormentata risoluzione nacquero, ufficialmente, i moderni comuni di Bordighera, Vallecrosia, San Biagio, Sasso, Soldano, Camporosso, Borghetto, Vallebona (che pure andarono incontro a destini diversi: alcuni rimasero come erano sempre stati, altri si ingrossarono come Camporosso, altri ancora quali Vallecrosia e Bordighera, che fini coll'inglobare Sasso e Borghetto, assunsero poi i connotati di autentiche città).
Per integrare quanto detto prima giungono però opportune alcune precisazioni prioritarie.

Il riordinamento della Liguria nelle due Divisioni, di Genova e Nizza, non fu, come anche pare logico, contemporaneo al passaggio dell'intera regione alla corona Sabauda (1815): in effetti si tentarono soluzioni compromissorie e provvisorie che talora scatenarono perplessità e proteste e la divisione ufficiale oltre che definitiva e ascrivibile a qualche anno dopo (1818).
Nel 1816 si sparse a Vallecrosia l'impietosa notizia di un reale progetto secondo cui, nell'ambito della divisione del territorio ligure in due Contadi (di Genova e Nizza), la linea di demarcazione sarebbe stata spostata dal corso del torrente Nervia alla Collina della Nunziata e il territorio ad oriente del Nervia sino al nuovo limite sarebbe poi finito sotto l'amministrazione del comune di Camporosso, che avrebbe così quindi fatto parte del contado nizzardo.

Pur nell'ambito delle ambigue demarcazioni della Magnifica Comunità, la parte terminale dei territori immediatamente a est del Nervia fu ritenuta ab antiquo di Vallecrosia (e, nella porzione superiore, di San Biagio della Cima) ora, nell'ipotizzata nuova sistemazione, questi due borghi, appartenenti invece al Contado di Genova, sarebbero stati depauperati di diritti e proventi ritenuti antichissimi.
Da qui derivarono le impaurite petizioni, espressioni magari di campanilismo ma soprattutto dettate da concrete valutazioni storiche, che si leggono nel Registro della corrispondenza, anno 1816, in Archivio Comunale di Vallecrosia.
Il grave della faccenda consisteva nel fatto che, contestualmente, si stavano in pratica risistemando, a livello amministrativo, la Liguria e gli Otto Luoghi: e questo incrementava, nella gente di queste località, confusione e stupore.
Tra le vecchie ville intemelie non vigeva più l'armonia di un tempo e la coscienza di una propria autonomia amministrativa, maturata nell'esperienza rivoluzionarla, valse ad accelerare un processo di separazione, che venne però recepito straordinariamente prima a livello culturale (e campanilistico) di quanto venisse ufficializzato dalle lentezze burocratiche.

Camporosso parve il Comune privilegiato, sia perché assegnato con Ventimiglia al Contado di Nizza sia perché gratificato di quell'imprevisto accesso al mare che è tuttora ribadito dal corridoio orientale del Nervia che con la stessa area costiera si nomina quale frazione di Camporosso Mare.
Ma ormai tra i Comuni, nell'attesa di una definizione dei vari problemi giurisdizionali e amministrativi, vigeva una certa tensione, in quanto, per la volontà di tutelare la propria autonomia e nello stesso tempo per l'altrettanto fiera volontà di conservarsi vecchi privilegi, ogni municipalità si arrogava diritti e pretese ma, con tenacia, misconosceva quelli altrui.
Così, quando nel 1818 il territorio intemelio venne ascritto alla Divisione di Genova, continuarono le petizioni e le proteste per quanto riguarda Vallecrosia, in particolare, contro Camporosso e gli ufficiali del Dazio (da sempre invisi) delle stazioni di controllo site al Nervia e ai confini con Soldano (Registri della corrispondenza, anni vari, in Archivio Comunale di Vallecrosia, documenti).
Tra liti e momentanee rappacificazioni i Sindaci degli otto borghi tentarono di risolvere le questioni della divisione, affidandone prima il progetto al geometra De Tommasi (1819) che realizzò nel 1828 il Tipo figurativo del territorio per la divisione degli Otto Luoghi, e poi al geometra nizzardo Escoffier che fece nel 1833 una sua proposta tecnica: ma nessuno si dichiarò soddisfatto.
Poi nel 1835 ci si dovette appellare all'imparzialità della Commissione Regia.

Un Progetto di Divisione del territorio della Comunità degli Otto Luoghi fu registrato a Sanremo il 30 maggio 1843 e per quanto riguardava Vallecrosia vi si legge: "Valle di Vallecrosia, composta di questo comune e di quelli di San Biagio e di Soldano, stimo doverle essere assegnato tutto il territorio compreso tra i limiti descritti, e dati come sopra alla valle di Camporosso, e così inclusivamente ai a meta della larghezza del letto del torrente Nervia a ponente, li territori di Dolceacqua e di Perinaldo a tramontana, il Vallone che prende il nome dal detto villaggio di Vallecrosia a levante, ed il lido del mare a mezzogiorno. Ed attesoché il detto villaggio di Vallecrosia si trova sulla sponda sinistra di quel torrente, io credo doversi anche assegnare a questa Valle una porzione del territorio sulla medesima sponda a finché quel villaggio non si trovi nel territorio d'un'altra valle..".
L'estensore del progetto Regio Misuratore Ludovico Escoffier basò queste sue riflessioni, che paiono sincere, sul fatto che "...la situazione rispettiva di quei villaggi, e la vasta estensione del territorio esistente sulla sponda destra della Nervia, ove trovasi il Villaggio di Camporosso non permettono in alcuna maniera ne dl stabilire una divisione cosi naturale e così comodo ne di dare una uguale quantità di territorio ad ogni valle, come si riconosce evidentemente dalla semplice oculare ispezione della pianta medesima stante che se queste quattro valli dovessero comporsi dei due pendenti a destra ed a sinistra dei torrenti, il Comune di Camporosso asservirebbe quasi la metà del territorio, e quello di Bordighera Capoluogo, o sarebbe confuso colla valle di Vallebona ossia col vallon di Batallo, o sarebbe così ridotto ad una ben piccola superficie. Laonde, dopo di avere il tutto attentamente esaminato io sono in senso che per conciliare gli interessi di tutti li villaggi condividendi e per dare a cadauno di essi l'estensione di territorio che si approssimi quanto sia possibile alla tangente cui li medesimi hanno diritto in precedenza, ed ai limiti più naturali, si deve assegnare".

A Camporosso venne, sulla base di queste riflessioni, proposto di assegnare "tutto il territorio esistente a ponente della sponda destra del Nervia inclusivamente alla metà della larghezza di questo torrente"; Vallecrosia, con grande soddisfazione, si vedeva riproporre il confine comunale occidentale del Nervia!
Ma Camporosso si oppose a questo progetto di cui il Prefetto di Sanremo Uberti fece inoltrare copie per ogni comunità.
Per quattro anni si ridiscusse la questione e nonostante le pressioni di Vallecrosia che si riconosceva limitata dal Nervia questo progetto venne sostituito da un successivo che riportò le questioni al punto di partenza.

Della soluzione definitiva, a riguardo delle relative aree comunali e della Divisione della Comunità delli Otto Luoghi non si hanno molti altri documenti specifici: come già detto essa fu comunque sancita nel 1848 e , secondo l'ottica municipalistica, fu ritenuta penalizzante da Vallecrosia in particolare, anche se ogni borgo aveva rimostranze e distinguo da avanzare.

Tuttavia per chiarire la questione e riconoscere come dopo il 1848 il confine comunale di Vallecrosia ad occidente non fu segnato col Nervia ma col discriminante più orientale del Colle della Nunziata vale la pena di riproporre un documento datato 12-III-1849, e quindi posteriore alla definitiva soluzione confinaria redatto dal Segretario comunale dell'epoca Biancheri e conservato nel Libro delle deliberazioni consiliari, stesso anno, in Archivio comunale di Vallecrosia, intitolato: Relazione del Segretario Comunale, stante che non vi sij Catastraro, relativo all'Asse Catastrale della Comunità di Vallecrosia, ed alcuni dati Statici della medesima.
In tale atto si legge: "e il territorio della Comunità di Vallecrosia sarebbe composto delle falde di due Colli in direzione da tramontana a mezzogiorno, una posta a destra del Torrente denominato Vallon di Vallecrosia e l'altra a sinistra del medesimo, ed una pianura sita alle estremità di detti Colli sino al lido del mare.
Questo territorio confina a tramontana col territorio del Comune di San Biaggio mediante due Piane, una cioè a destra del torrente chiamato Piandodo dal punto dove sgorga nello stesso Torrente dalla sua origine, ed in direzione diretta sino alla sommità del Colle, e l'altra alla sinistra detta di Caossa dal punto ove versa nel Torrente medesimo sino alla sua origine ed indi in direzione retta sino alla sommità del Colle ove si incontra una strada; a Levante questa strada in direzione a mezzogiorno sino all'origine del Vallon di Rattaconiglio, ed indi questo Vallone sino al lido del mare in confine della Comunità di Borghetto; a Ponente la cresta del Colle, in confine del Comune di Camporosso, seguitando l'... dello stesso Colle in direzione a mezzo giorno sino all'estremità del medesimo, indi dalla metà del piede di questo, mediante una linea retta, sino al lido del mare; ed a mezzogiorno il lido del mare dal Vallon di Rattaconiglio sino alla detta retta ".

Pare ormai evidente che nell'ambito della raggiunta conciliazione dei borghi, relativamente al problema delle rispettive aree amministrative, la municipalità di Vallecrosia abbia poi dovuto accettare una soluzione compromissoria che ribadì l'accesso al mare di Camporosso, altrimenti infattibile, relativamente alla striscia di territorio che oggi attraverso la località Braie porta a quella rivierasca di Camporosso Mare.

Vallecrosia fu così individuata nella sua esatta porzione amministrativa segnata ad occidente dal Colle della Nunziata e a levante dall'origine del Vallone di Rattaconiglio (per i restanti limiti non sorsero in linea di massima grosse controversie): e quest'area amministrativa, bene o male poi accettata, fu quella con cui si identificheranno le successive vicende del moderno Comune di Vallecrosia.

Poi, dopo la fine della guerra, nel fiorire della pace si ebbero altre trasformazioni ancora, con l'esplosione della floricoltura e del turismo: ormai gli Otto Luoghi vivevano la loro autonomia in una sorprendente vitalità di iniziative: ma forse, meditando un poco su quanto fecero i Padri fondatori dell'antica Comunità, oltre la loro semplicità, al di là della loro lotta per una vita più giusta tramandano all'oggi un messaggio straordinario di democrazia, il segnale che, se la volontà regge e governa gli uomini, ogni ostacolo si può superare, ogni difficoltà diventa superabile, i giorni non si succedono più oscuri ma fruttuosi di promesse.

Un messaggio su cui neppure oggi, quando tutto sembra così banale, val la pena di meditare un po', per scoprire le proprie radici ed assaporare il gusto, mai abbastanza provato, della fratellanza!

Lo stesso accadde per gli altri borghi, pian piano si risolsero tutti i vari problemi e si aprì la strada della loro storia moderna, destinata a passare ancora attraverso le tormentate vicende di guerre, scontri politici, trasformazioni economiche, sino ai cataclismi della II guerra mondiale.

da Cultura-Barocca

mercoledì 16 gennaio 2019

Albingaunum ed Albenga paleocristiana: cenni

Cisano sul Neva (SV) - Fonte: Wikipedia
Nel periodo più prospero dell'impero di Roma l'abitato di Albingaunum [Albenga (SV)] si estese anche fuori del perimetro delle mura fin sotto la collina del Monte. Infatti, nel corso di lavori nell'attuale letto del fiume Centa si sono scoperti un complesso termale con numerosi ambienti (fra il II e il IV sec. d.C.), che sono stati messi in relazione con terme ricordate da un iscrizione, oggi perduta, ma nota da una trascrizione, e sette piloni dell'acquedotto; più oltre la necropoli (II-III sec. d.C.) con tombe a recinto lungo la strada romana e, a ridosso della collina, la zona paleocristiana di San Calogero con il complesso delle rovine della basilica e del monastero nelle sue varie fasi con il reimpiego di materiali romani. 

Sull'altro lato della città, a occidente, fuori dalle mura, ma in asse con il decumano massimo, è stata scoperta a livello di fondazione una vasta costruzione a quadriportico, con al centro un monumento a grandi blocchi, databile al I secolo d.C., in seguito abbandonata e utilizzata per una necropoli tardoromana e bizantina. L'edificio, caratterizzato dalla sua ubicazione ed assialità con il decumano, è da ritenersi un mercato extra-moenia come quello di recente scoperto (e nuovamente interrato) ad Aquileia. 

Ad Albingaunum non vi sono dunque edifici urbani romani emergenti fuori terra, ma l'impianto romano è più evidente che altrove attraverso la città medievale che lo conserva in modo così vivo e in più con la suggestione di un mondo comunale preservato fuori dal tempo. Fuori città, sulla spianata della collina del Monte, che è stato probabilmente il luogo dell'insediamento fortificato preromano, sorgeva l'anfiteatro, ora in gran parte demolito. Insolitamente costruito al sommo di una collina, di esso restano tratti del muro perimetrale esterno con contrafforti, dell'ellisse interna che circondava l'arena e uno degli ingressi principali di grandi proporzioni. 

Sul colle si segue, in una pittoresca passeggiata archeologica in zona agreste, il percorso della via Julia Augusta, conservata a tratti in tagli nella roccia e nel lastricato a pietrame e gradini, rimaneggiata nel medioevo con fasce laterizie, che si snoda a mezzacosta fino ad Alassio fiancheggiata da una serie di mausolei e di ruderi; spicca, all'inizio, il cosiddetto 'Pilone', monumento funerario del II secolo d.C., molto restaurato dal d'Andrade nel 1892 e danneggiato nell'ultima guerra. È del tipo detto 'tromba a torre', e consta di tre corpi quadrangolari (in muratura in conglomerato piena a paramento di blocchetti spaccati) sovrapposti, coronati in alto da un attico che formava due nicchie con le statue dei defunti. Sul fronte a mare vi è una nicchia a volta entro la quale sono due nicchie per le urne funerarie. 

Presso Cisano sul Neva c'è un monumento funerario simile, detto 'torre dei Saraceni'. Una serie di sepolcri monumentali a fianco della strada, convenzionalmente indicati con lettere dell'alfabeto, rappresentano, con i recinti funerari di Ventimiglia (in gran parte non più conservati), un raro esempio in Liguria di architettura funeraria del tipo 'a recinto' con nicchia semicircolare o colombario con loculi, oltre che di strutture a piccolo apparato con inserti opus reticulatum (blocchetti disposti diagonalmente a losanga) e di opus incertum rivestito di intonaco (all'interno tracce di affresco) del I secolo d.C. 

Alcune miniature appartengono invece a una villa che non è stata esplorata. Come a Ventimiglia (IM), anche se in proporzione assai minore, la necropoli ha restituito corredi funerari, per lo più reperti in ceramica, e, inoltre, un'urnetta funeraria marmorea decorata con motivi vegetali e uccelli; più raro è un puteale marmoreo decorato con bucrani e festoni secondo la tipologia delle are rotonde sconosciuta in Liguria. Un solo pavimento musivo recuperato si affianca alla maggior documentazione di Ventimiglia; si tratta di un mosaico geometrico del I secolo, con motivi quadrangolari e a losanga che sono più propri dell'opus sectile. Numerose epigrafi funerarie e onorarie, di cui molte anche paleocristiane, testimoniano l'attività di lapicidi. 

Albenga paleocristiana nella sua forma urbis venne riedificata da Costanzo III, dopo le devastazioni dei Goti e dei Vandali, tra il 414 ed il 417 come si ricava da un'iscrizione (C.I.L., V, 7781) e da un passo di Rutilio Numaziano (F. DELLA CORTE, La ricostruzione di Albingaunum [414-417 d.C.], in "Rivista di Studi Liguri", L, 1984, pp. 18-25). 

Le fonti attribuiscono a Costanzo III il restauro del porto, delle mura, di case private e di pubblici edifici ma non gli attribuiscono interventi a favore degli edifici ecclesiastici, opere forse avvenute in modo autonomo su committenza vescovile. Tuttavia il complesso vescovile era incastonato nel tessuto della città romana e la Cattedrale si trovava sel sito dell'antico foro (J. COSTA RESTAGNO, Albenga, topografia medievale, immagini della città, Bordighera, 1959 ed Ead., Albenga, le città della Liguria, 4, Genova, 1985. 

da Cultura-Barocca

sabato 12 gennaio 2019

Ospizi per pellegrini nella zona di Ventimiglia (IM)

La Baia di Latte a Ventimiglia (IM)
Il notaio di Amandolesio rogò a Ventimiglia [(IM)] un atto (7 settembre 1260) in cui alludeva a tali Gandolfo Leto e Ricolfo Rolando di una Domus de Cornia (scritta anche Cadetornia per Cadecornia) che aveva varie proprietà fondiarie. E' possibile che la struttura ospedaliera avesse la casa madre nella zona di Latte [Frazione di Ventimiglia] e che valesse per i pellegrini in movimento alternato, sia dalla Provenza in direzione di Roma o, più estesamente, diretti alla volta della Terrasanta. L'identificazione che l'ospizio sorgesse nel circondario di Latte sembrerebbe avvalorato dall'uso di una dicitura inconsueta, utilizzata in un atto del 7-X-1507 dal notaio Bernardo Aprosio, che dice in volgare "Laite osea la casa de corni".

Nella prebenda orientale, nell'area di Ospedaletti [(IM)], esisteva un OSPEDALE SANCTE MARIE DE ROTA [destinato attraverso i secoli ad un lento ma inarrestabile degrado, pur finendo per dar nome ad una località di Bordighera dal moderno nome della chiesa, ridotta al rango di cappella di NOSTRA SIGNORA DELLA RUOTA], citato in vari atti ed anche nei documenti della "Signoria Doria di Dolcecaqua": è impossibile oggi sapere quale significato avesse avuto per l'erezione della struttura ospedaliera l'esistenza nelle vicinanze, sulla riva del mare (dove sgorga tuttora), di una SORGENTE SOLFOROSA e se la stessa fosse stata assimilata nel contesto di una struttura ecclesiastica per un processo di SCONSACRAZIONE/ RICONSACRAZIONE e, successivamente, quale ruolo avesse avuto la stessa SORGENTE (al pari di quella di LAGO PIGO) per la CURA DI VARIE MALATTIE sia di Pellegrini che di ammalati (tenendo conto che facilmente i due elementi qualificativi potevano concentrarsi in un'unica persona, quella del viandante di fede ammalato e nonostante tutto intenzionato a proseguire nel suo pellegrinaggio).
Si giungeva all'Ospedale dalla val Nervia per la diramazione della via del Giunco (che permetteva di valicare la valle del Crosa o Verbone in direzione sud-est) ed esso costituì un'importante base di ricovero pei viaggiatori che procedevano verso il porto GENOVA donde imbarcarsi per i lidi di ROMA e del LAZIO.

Il grande OSPEDALE DE ARENA, per quanto si ricava dai parecchi documenti, doveva avere due sedi, una nella prebenda alla sinistra del Nervia (nell' edificio ad ovest del locale Consorzio Agrario, dove si sono individuate tracce di IMPIANTO MURARIO a celle del medioevo) e l'altra nel territorio vallecrosino della "TERRA DEI FRATI o VIGNASSE", presso la chiesa di S. Vincenzo e S. Rocco [oggi di San Giovanni], ove agli inizi del secolo scorso si rinvennero tracce di un approdo marittimo medioevale mentre poco più a Nord, in edifici delle proprietà Nari e Renosi, durante lavori sterro furono scoperti di recente resti murari medioevali ed un'architettura di ordine monastico a celle comunicanti, reperti di un forno e di lavatoi della stessa epoca (per quanto da leggere topograficamente, si ricorda atto -14\IV\1305- per cui "Rubaldo di Lavagno pellicciaio e Bonommo suo figlio, vendono a Oddone Ferrari ed altri una casa posta in Vallecrosia sul suolo del monastero di S.Siro di Genova" in A.S.G., Archivio Segreto, Buste Paesi, n.g.364; B.DURANTE-F.POGGI-E.TRIPODI, I graffiti della storia...cit., p. 155, nota 31 e sez. IV,1= in tale area pseudomonastica fin ad alcuni decenni fa stava una casa ora demolita in proprietà Nari, sopra la chiesetta romanica di S.Rocco, con l'aspetto architettonico della domus fortificata genovese dai paramenti esterni a scarpa; furono pure lette due date incise, del 1410 e del 1517, in un muro edificato verso il '500 sopra lo stesso presunto corpo monastico. E' pensabile che il complesso, conclusa l'esperienza cenobitica, fosse rientrato nelle fortificazioni militari repubblicane contro i Catalani (particolarmente nel periodo in cui questi contesero a Genova il controllo della Corsica) e che sia stato alterato nel XVI sec. come Torre antiturchesca in collegamento visivo con quella da combattimento in Vallecrosia-costa, il Torrione, e colle Casette a Sud-Est del borgo medioevale, dove tra il 1816 e '24 si rinvennero reperti medioevali su strutture romane= A.C. Vallecrosia, Registri delle Deliberazioni comunali, anni 1816-24).
Sulla base di 2 atti del 24-VIII-1262 (di Amandolesio, doc. 488-9) si evince che per giungere da questo "Ospedale de Arena" alla casa episcopale di Ventimiglia, procedendo con moderazione, poteva occorrere più di un'ora: l'arco cronologico si è ricostruito seguendo il tragitto fatto, evidentemente su una lettiga o portantina, dalla direttrice ed amministratrice del ricovero, tale Alamanna che, mortalmente malata o ferita, si era fatta condurre presso il vescovo Azone Visconti nella Canonica della Cattedrale intemelia, onde trasferire la sua carica al marito confrater Giovanni Cavugio (la vaga ma percettibile indicazione del superamento di due corsi d'acqua avvalorerebbe vieppiù l'ipotesi di una provenienza dal sito vallecrosino).
La transazione dei poteri dovette avere il consenso dell' arcidiacono Nicolao, del sacrista Ottone, del Preposito Rainaldo, del canonico Iacobus de Unelia; la presenza di Vescovo ed Arcidiacono era istituzionale come quella del Sacrista (questo non aveva prebende ma percepiva dagli altri Canonici 30 soldi di genovini alla Festa di S.Martino pei suoi diritti su tutte le proprietà; doveva presiedere ad ogni atto pubblico o privato che le concernesse ed era l'unico esponente del Capitolo la cui carica risultasse annualmente elettiva, durante la festività dell'Epifania). La presenza dei soli canonici Rainaldo e Iacobus documenta invece che le sedi dell'Ospedale de Arena eran 2 e locate sulle loro 2 prebende, quelle "dal Nervia a Bordighera" e "dallo stesso torrente al fiume Rodoria(Roia)".

Da altro rogito dello stesso notaio (6-V-1264, doc. 621) sembrerebbe invece che l'OSPEDALE DELLA DOMUS INFIRMORUM DE CARDONA dipendesse dal Capitolo solo per il lato spirituale, godendo di autonomia amministrativa, propria di quell'evoluzione degli "Ordini Ospedalieri cui si fece cenno.
Da atti del notaio di Amandolesio (doc. 559, 4-V-1263, doc. 560, 6-V-1263, doc.558, 4-V-1263, doc. 571, 26-VI-1263) la casa ospedaliera risulta sita "a Ventimiglia, sulla spiaggia del mare presso Cardona", nel sito identificabile fra la vecchia chiesa di S. Giuseppe -già area di un vetusto S.Nicolò- e l' agglomerato geologico dello SCOGLIO ALTO (dagli atti si riconosce che questo ospizio come quello de Arena fu base per i viandanti verso Oltremare, tra cui stavano Cavalieri e Crociati: in particolare il documento del maggio 1263 si riferisce ad un contenzioso per cui certo Oberto Giudice nominò qual suo procuratore Guglielmo Enrico per riscuotere da Ianone di Monaco e Nigro Iaculatore le somme relative alla fideiussione da loro prestata a favore di Michele de la Turbie non presentatosi all'imbarco sulla GALEA destinata alla volta della ROMANIA termine col quale nel medioevo si indicavano i territori dell'IMPERO ROMANO D'ORIENTE ed in particolare la PENISOLA GRECA ove dopo la IV CROCIATA ela presa di Costantinopoli ad opera dei Crociati specialmente i Veneziani ed i Genovesi posero le basi per un'intensificazione dei loro commerci e per la protezione delle loro colonie dalle incursioni degli Arabi: v. Albintimilium...cit., II,2,11).

La zona dell'Ospedale de Clusa
L'OSPEDALE DE CLUSA dipendeva totalmente dal Capitolo: non senza ragioni si propende ad identificarne la logistica nell'area tra il torrente Garavan [oggi Mentone, Costa Azzurra] e il sito dei Balzi Rossi dove, da tempo immemore, si conserva - fra alterazioni fonetiche e ortografiche - il toponimo (che verisimilmente prese nome dalla struttura scomparsa ma che servì poi per indicare una zona coltivata ad agrumi) Le Cuse, nome di luogo registrato parimenti nella settecentesca cartografia del Dominio di Genova quanto della Diocesi di Ventimiglia.

Gli OSPIZI DI S. MICHELE E OLIVETO (forse doppia nominazione per una singola struttura magari colla gestione frazionata in due case di fondazione benedettina di Lerino) : come si individua facilmente dalla logistica di queste strutture, era loro funzione ospitare pellegrini per le SPAGNE accedendo per "via di mare" o per "tragitto di costa" al FONDAMENTALE NODO VIARIO E DI SMISTAMENTO DELLA PROVENZA E DI ARLES IN PARTICOLARE (a tutte la case ospedaliere si facevano lasciti per sacconi o pagliericci, indumenti e vestiti a vantaggio di malati, viandanti e poveri: Albintimilium...cit., cap. II, 11).

Ventimiglia (IM): Chiesa di San Michele
L'OSPEDALE DEL TEMPIO era invece fenomeno peculiare, connesso alla presenza in Ventimiglia di Cavalieri Templari, che si facevano pagare per l'assistenza e la protezione dei viandanti. Dagli atti del di Amandolesio si evince che questo organismo teneva proprietà terriere in Ventimiglia, vicino alla chiesa di S. Michele, ma che non confinavano colle mura cittadine, essendo da queste separate per via dei poderi di tal Ingone Burono (doc.569, 25-VI-1263). L'ospedale aveva anche delle proprietà nel luogo ad Villam che potrebbe connettersi col moderno toponimo intemelio "le Ville", presso la città medievale, se il notaio , scrivendo in territorio Vintimilii (e non prope, cioè "vicino") non sembrasse piuttosto alludere, come era solito usando tal denominazione, riferirsi ad una località del Contado, appunto il "territorio": egli usò raramente questo toponimo Villa e soltanto riferendosi ad una contrada grossomodo corrispondente all'attuale sito di Bordighera medievale, dove effettivamente già prima del XV secolo esisteva una Villa poi distrutta per ragioni mai completamente chiarite (costituiva nel contado l'unico insediamento demico di XIV sec. senza specifica nominazione: doc.613, 15-IV-1263 e doc.154 ove si legge "ad collam de Burdigueta ubi dicitur Villa").

Chiesa della Madonna della Ruota a Bordighera (IM), sito molto vicino ad Ospedaletti
Una "base templare" a Bordighera non sarebbe improbabile calcolando lo sviluppo degli approdi in tal luogo e tenendo conto dei percorsi trasversali che potevano connettere il sito sia coll'Ospedale della Ruota che col tragitto nervino: tenendo altresì conto del Priorato templare di Sospello (chiesa di S. Gervasio, dipendente dalla Diocesi intemelia) e sulla loro base commerciale al passo di Tenda (Albintimilium cit., p.266, nota 40: sussiste altresì l'ipotesi di un loro distinto insediamento sul colle di Siestro in Ventimiglia, di cui si disquisisce nella Scansione di seguito sviluppata sugli insediamenti demici e fortificati del contado).



Per ricostruire la TIPOLOGIA di queste STRUTTURE DI RICETTO E CURA bisogna rifarsi alle strutture superstiti di cui si ha certezza come nel caso della COMMENDA DI S. GIOVANNI DI PRE' A GENOVA.
Verisimilmente erano distinte in due aule, non comunicanti tra loro: una riservata agli ammalati veri e propri e l'altra ai pellegrini in cerca soltanto di riposo.
Una successione di giacigli (i "sacconi" come si legge nei documenti del XIII secolo) serviva per ospitare malati e pellegrini: questi verisimilmente potevano poggiare su delle pance o delle NICCHIE ricavate nel muro il loro modesto bagaglio.
Qualche rilevazione in effetti si può produrre anche per gli OSPIZI DEL VENTIMIGLIESE nè si deve obbligatoriamente uniformare in assoluto la tipologia di tutti gli OSPIZI ad un superstite tipo iconico: è comunque plausibile ritenere -stando alla logistica ed alla tradizione locale- che i retsi di una struttura ospedaliera fossero da ravvisare in un COMPLESSO PRESUMIBILMENTE MONASTICO al terminale della VALLE DEL CROSA, nella zona dei PIANI, in prossimità dell'antica chiesa e prebenda di S.VINCENZO-S.ROCCO, in linea quindi coi resti della VIA ROMANA -fino a non molto tempo fa testimoniati da un GUADO nel corso del Rio Verbone o Crosa ed in rapporto ad una costa che conobbe una sua vita marinara antica -come si evince da vaghi segnali archeologici- anche se l'ATTRACCO più noto di cui si abbia testimonianza è relativamente (la base difensiva contro i TURCHI del TORRIONE ARMATO DI VALLECROSIA -eretto per impedire sbarchi pirateschi- induce a credere che la zona fosse tipologicamente ritenuta idonea da molto tempo per l'approccio, anche saltuario, di imbarcazioni).
Non è certo da escludere la promiscuità date le limitate potenzialità terapeutiche e tenedo peraltro conto delle consuetudini medievali.
A prescindere dalla buona volontà, e dalle prime nozioni teoriche apprese dagli Arabi interpreti della grande medicina greca molti interventi curativi erano affidati all'improvvisazione senza una reale valutazione delle eziologie e delle patologie.
Anche per questo dei buoni sacconi cioè dei giacigli comodi erano, per tanti sciagurati, un primo importante intervento per dare almeno del sollievo.
Tuttavia per i "confrari" ed i laici che gestivano queste strutture un importante contributo venne dai MONACI BENEDETTINI che in quest'epoca stavano sviluppando la grande esperienza agronomica della GRANGIA e che scoprendo dai libri antichi (che andavano salvando come quello di Pedanio Dioscoride medico e letterato romano) i rudimenti delle terapie e soprattutto l'ERBORISTERIA RAZIONALE se ne fecero interpreti allestendo i primi davvero efficienti laboratori di  DISTILLERIA e, dopo un breve periodo di transizione, fecero in modo che varie conoscenze erboristiche pervenissero anche a persone estranee al loro Ordine, compresi gli ancora titubanti MEDICI.
Per quanto lo scorrere dei secoli abbia prodotto indubbi mutamenti le differenze fra le vecchie e le nuove istituzioni ospedaliere non dovettero essere consistenti: del resto per lungo tempo il giudizio della MALATTIA oscillò fra credenze e pallide proposte di indagine razionale.
Gli stessi MEDICI oltre a scarsissimo bagaglio scientifico e con minima, rozza strumentazione chirugica [per cui un intervento demolitore -come l'amputazione di un arto colpito da cancrena oltre ad essere paurosamente dolorosa anche per la mancanza di qualsiasi anestetico] si dibattevano spesso in estenuanti imprese teoretiche che in qualche caso li inducevano a far identificare qualche per loro inspiegabile MALATTIA con i terrori di MORBI INDOTTI PER VIA CRIMINALE O PER ARTIFICIO MAGICO.
Sotto questo profilo contro la MEDICINA UFFICIALE ebbe notevole successo la meno pericolosa MEDICINA POPOLARE.
I monaci che gestivano gli ospedali nel '200 erano per molti versi legati sia alla medicina popolare che all'antica arte dell'ERBORISTA O DELL'AROMATARO capace di estrarre dalle piante principi ed essenze in qualche modo efficaci: ed essendo tra l'altro, molto spesso, degli AVVEDUTI ERBORISTI apprendevano profondamente certi segreti della natura e creavano sostanze veramente curative o -come accadde in Liguria occidentale- da una pianta quasi "istituzionale" come la LAVANDA riuscirono ad estrarre un'infinita varietà di derivati utili in medicina ma addirittura usati in certe forme di Disinfestazione di insetti nocivi che potevano preludere all'avvento di qualche morbo micidiale.

Delle strutture in cui operavano i fratres del XIII secolo si conosce poco e poco si può dire: data la limitata evoluzione oarchitettonica di questi "centri di cura" si può ritenere che la SCENA DI VITA OSPEDALIERA dipinta da Jacopo Carrucci detto il Pontormo nella I metà del XVI secolo possa servire a fornire una qualche idea della vita nei più antichi ospizi: per quanto i mezzi fossero limitati come le conoscenze bisogna tuttavia ammettere che per molti sbandati, sconvolti da malattia e febbre, questi ricoveri furono spesso l'unico "salvavita" e soprattutto non si può dimenticare l'attivismo e l'avvedutezza anche terapeutica con cui i religiosi ANTONIANI (che indubbiamente operarono nel Ponente ligure, nell'ambito degli ospedali) svilupparono la cura di uno dei mali più temuti (e purtroppo alquanto diffuso) in quell'epoca, cioè l'ERGOTISMO.

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